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L’illuminata scelta della Asl di Lecce di intitolare il Dipartimento di emergenza e accettazione (Dea) di Lecce a don Tonino Bello, rafforza ancor di più il legame spirituale tra la città capoluogo, la Chiesa locale e il Venerabile di Alessano.

 

 

 

 

Che già se non si volessero scomodare le radici di un’intensa relazione e della “catena di una profezia” che riportano la memoria al compianto arcivescovo Michele Mincuzzi (LEGGI), basterebbe considerare solo l’ultimo anello in ordine di tempo: a presiedere la cerimonia di ‘dedicazione’ sarà il card. Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, salentino come don Tonino e anch’egli tra i privilegiati per aver vissuto la stagione episcopale del Servo di Dio a Molfetta, da professore e da prefetto agli studi dell’allora Istituto teologico, di casa nel seminario regionale. Ma anche per essersi reso primo testimone, nel merito (la conoscenza diretta) e nel ruolo (a capo del Dicastero da poco più di un anno), agli occhi del Santo Padre che il 25 novembre 2021 ha riconosciuto l’eroicità delle sue virtù.

Così si esprimeva il vescovo Marcello, non ancora cardinale e prefetto (lo sarebbe divenuto circa un anno dopo) in un’omelia pronunciata nella cattedrale di Molfetta il 7 settembre 2019, facendo cenno all’ultimo tratto di strada di don Tonino, inchiodato nel letto dalla malattia: “Chi accetta di caricarsi della propria croce, per amore del Signore, in realtà insieme a Lui stringe in un abbraccio universale tutta l’umanità per riportarla alla comunione con Dio Padre. Mentre il mondo rifiuta la croce come pura assurdità della vita, noi invece rimaniamo ammirati dai santi che sono stati capaci di comprendere la croce e vivere il mistero di morte e resurrezione in essa contenuto. Amandola fino a preferirla, hanno sperimentato l’apertura della loro vita ad una più profonda comunione con Dio e con i fratelli tutti”.

E don Tonino che ha interrotto il suo passaggio terreno da “discepolo della croce” e “grazie ad essa” non poteva che diventarne testimone. Opportuna e giusta, dunque, la decisione di intitolargli un “moderno calvario”, luogo dove croci e crocifissi chiedono attenzione e cura e, con tanta fiducia nella medicina, dalle vetrate della moderna struttura scorgono i riflessi della speranza. Lì stesso, al Dea del “Vito Fazzi” - che d’ora in poi si chiamerà Dea “don Tonino Bello” -, domani pomeriggio alle 15,30, il card. Semeraro, scoprirà la targa commemorativa e presiederà l’Eucarestia per gli ammalati, per gli operatori sanitari, per la città. Per il Salento intero.

In un altro intervento, in occasione della dichiarazione di venerabilità, ad Alessano il 16 gennaio 2021, questa volta da cardinale prefetto, Semeraro confidava le sensazioni suscitate dal suo ultimo incontro con don Tonino a poche settimane dalla morte: “Permettete pure che inizi la mia omelia col ricordo dell’ultimo mio incontro con don Tonino, avvenuto qui ad Alessano nel febbraio 1993, quando venimmo, mons. Donato Negro ed io, a salutarlo in quei giorni di degenza, che egli sperava gli fossero d’aiuto nella ripresa fisica”. “Tra gli apoftegmi degli antichi padri del deserto ce n’è uno - così durante l’omelia - dove si racconta che «tre padri avevano l’abitudine di andare ogni anno dal beato Antonio e due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; il terzo invece sempre taceva e non chiedeva nulla. Dopo lungo tempo, il padre Antonio gli dice: ‘È tanto ormai che vieni qui e non mi chiedi nulla’. Gli rispose: ‘A me padre, basta il solo vederti’ (Alf., Antonio 27). Ebbene, anche noi venimmo qui, quel pomeriggio, solo per vederlo, e - conoscendo le sue condizioni fisiche - anche un po’ timorosi di poterlo affaticare”.

“Lo incontrammo - confidava il porporato - seduto nel suo piccolo letto, in vestaglia e intento a correggere le ultime bozze di ‘Maria, donna dei nostri giorni’. Sapevamo bene quanto fosse accurato nello scrivere ed egli, sorridendo, ce lo disse pure, preoccupato di consegnare in tempo il manoscritto all’editore, sicché l’opera fosse pronta per il successivo mese mariano di maggio. Ci disse fra l’altro che era sua intenzione tornare presto a Molfetta. «Un vescovo - disse - deve morire tra i suoi figli, dove il Signore lo ha collocato». Morì dopo due mesi; «come i Patriarchi e gli antichi Padri», disse l’arcivescovo Mariano Magrassi - anch’egli di venerata memoria - nell’omelia durante la liturgia esequiale celebrata sul porto di Molfetta in un luminoso pomeriggio primaverile”.

 

 

 

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