“Non ho paura perché penso che un sacerdote, un cristiano, una persona deve rendere conto prima di tutto alla propria coscienza, a Dio e alla storia. C’è un ordine logico di sottomissione. Certamente un cristiano riconosce l’autorità dello Stato, ma sa che ci sono anche autorità superiori che sono quelle della coscienza e di Dio”.
A parlare è Giovanni Guaita, sacerdote e monaco della Chiesa ortodossa russa. Sardo originario di Iglesias, esercita il suo ministero presso la chiesa dei Santi Cosma e Damiano in pieno centro di Mosca. È uno degli autori di una lettera aperta, firmata da 300 chierici ortodossi russi, che chiedono la pace e l’interruzione del conflitto in Ucraina. Una posizione coraggiosa, considerando le ultime iniziative prese dal governo russo per limitare e controllare il dissenso. È stato stabilito un reato di diffusione di false notizie che prevede fino a 15 anni di detenzione. Questa “diffusione di false notizie” può, per esempio, essere semplicemente l’utilizzo della parola “guerra” anziché “operazione militare” riferendosi ai fatti in Ucraina. La Federazione russa prevede inoltre la confisca dei beni degli stranieri residenti in Russia nel caso in cui ledano gli interessi dei cittadini russi e dello Stato. Una decisione che ha messo i giornalisti stranieri e i corrispondenti in grandissimo allarme. Giovanni Guaita confida subito, senza esitazione: le notizie che arrivano dall’Ucraina, “le sto vivendo, come tanti cittadini russi, con grande tristezza, con grande dolore. Sono fatti gravissimi. Per un cristiano poi è tanto più grave se si considera che gli ucraini sono fratelli nella fede e fedeli della stessa chiesa ortodossa russa del Patriarcato di Mosca”.
In Italia colpisce il silenzio del Patriarca Kirill. Perché è così timido nei riguardi di questa guerra?
Dobbiamo fare una considerazione storica di grande importanza. L’atteggiamento delle Chiese ortodosse e quello della Chiesa cattolica rispetto alla autorità laica di qualsiasi Stato sono diametralmente opposti, perché opposta è l’eredità storica di una chiesa e dell’altra. Quando, dopo la presa di Roma, è finito l’Impero Romano d’Occidente non c’è più stato un potere laico a Roma per tantissimo tempo e il Papa si è trovato nelle condizioni di doversi assumere anche una responsabilità politica e di dover conciliare nel bene e nel male il potere spirituale con quello temporale. Anche quando questa autorità laica è comparsa, con l’incoronazione di Carlo Magno, l’imperatore si trovava comunque molto lontano e il papato ha continuato a svolgere un ruolo politico molto forte. A Costantinopoli è avvenuto esattamente il contrario perché per mille anni dopo la presa di Roma il Patriarca è stato gomito a gomito con l’imperatore. Non c’era alcuna necessità che svolgesse un ruolo politico ed era anzi totalmente sottomesso all’imperatore cristiano, che convocava i concili, combatteva le eresie, destituiva i vescovi. Questa eredità storica è molto pesante. Bisogna poi pensare che le chiese ortodosse sono chiese nazionali e quindi identificate con un certo popolo, una certa cultura, un certo territorio e anche con chi governa il paese in questione. Ancora oggi è molto difficile evitare questa identificazione.
Ma di fronte ad un popolo martoriato e massacrato, popolo legato tra l’altro alla tradizione e alla chiesa ortodossa russa, perché è così difficile per il Patriarca Kirill dire una parola di orrore, vicinanza, solidarietà?
Bisogna considerare il fatto che il Patriarca Kirill si trova a capo di una chiesa che vive in Ucraina, ma anche in Russia e in Bielorussia. Dunque, si trova in una posizione estremamente delicata, difficile e scomoda. Io personalmente - ma anche tanti altri nella chiesa, sia laici che sacerdoti e probabilmente anche vescovi - desidereremmo una maggiore presa di posizione, più netta e più esplicita. Direi che fin qui è stata una parola piuttosto implicita. Il Patriarca ha chiesto di pregare per la pace e di porre fine a qualsiasi violenza. Avremmo gradito qualcosa in più. Il metropolita di Kiev Onofrio, a guida della chiesa ortodossa ucraina dello stesso Patriarcato di Mosca, è stato molto più esplicito, rivolgendo un accorato appello a Putin, oltre che a tutti i fedeli. Ma la Chiesa non è soltanto il Papa o il Patriarca e i metropoliti. La Chiesa è: dove due o più sono uniti nel nome di Gesù Cristo. Quindi anche le opinioni e i desideri dei fedeli sono in certo senso opinioni e desideri della Chiesa. Credo che sia una questione di tempo. C’è una opinione pubblica anche all’interno della Chiesa che sta maturando e che sta a mio avviso crescendo. Ma è per ora minoritaria.
Quanto tempo ci vorrà?
La Chiesa è nella storia. È figlia della propria storia e del proprio popolo e cresce insieme al popolo. Si vorrebbe che questo cammino di maturazione sia molto più veloce ma bisogna fare i conti con la realtà. Sono sicuro che la massa critica di persone per le quali la giustizia, la verità, la pace, sono concetti fermi, non suscettibili ad essere messi in discussione per vantaggi politici o strategici, stia aumentando. Se guardiamo al testo biblico, a Dio bastano dieci giusti per salvare una città.
È preoccupato del fatto che questa timidezza del Patriarcato di Mosca possa in qualche modo ledere il dialogo ecumenico?
A me preoccupa soprattutto il fatto di essere all’altezza della nostra chiamata, più che davanti alla società ecumenica. E mi preoccupa cosa i nostri fedeli pensano e penseranno. Se ci mettiamo in un’ottica storica mi chiedo: cosa in futuro si scriverà di noi e di questi avvenimenti? È una domanda molto seria che dobbiamo porci. Mi preoccupa molto anche il fatto che la Chiesa ortodossa russa sia capace di formare la coscienza delle persone, aiutandole a distinguere il bene dal male. Perché una Chiesa che non fa questo vive in uno stato grave di malattia. Prego e spero che non sia così.