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Tra le varie manifestazioni religiose, che la pietà popolare riserva nel periodo natalizio, il presepe è quello che maggiormente impegna le famiglie, le comunità parocchiali o le associazioni culturali di molti paesi e città.

La tradizione del presepe nelle famiglie, anche le più povere o meno sensibili al mistero cristiano, e nelle parrocchie, anche in quelle più piccole e sperdute, in maniera ridotta all’essenziale, con una semplice capanna, la stella e la Santa Famiglia, o arricchito di una grande varietà di personaggi, è il più significativo biglietto di presentazione più autentica del Natale.

Nel primo millennio del cristianesimo il Natale del Signore, celebrato solennemente nella liturgia e nella memoria dei racconti desunti dai vangeli apocrifi, ha contagiato del suo contenuto l’arte scultorea, musiva, pittorica, fino a raggiungere, nel corso del Medioevo, anche l’arte teatrale e, al suo interno, la scenografia sacra, ovvero le sacre rappresentazioni. Il graduale passaggio dalla Parola dei racconti antichi alla celebrazione liturgica del mistero dell’incarnazione, all’immagine dipinta e scolpita, costituisce la chiave ermeneutica per cogliere il verso significato delle sacre rappresentazioni.

Nel 404, San Girolamo, scrivendo ad Eustochio, afferma che Paola, in un pellegrinaggio a Betlemme, sia entrata nello Specum Salvatoris, nel luogo cioè dove nacque il Salvatore: una grotta, una stalla. Nell’immaginario cristiano popolare, favorito dall’incremento dei pellegrinaggi nella Terra Santa, ci fu sempre il costante tentativo di riprodurre questo piccolo angolo di Betlemme costituito dallo specum Salvatoris, riproduzioni che spesso portano la denominazione tipica di presepe, termine latino che significa greppia/mangiatoia.

A Roma, la Basilica di Santa Maria Maggiore, sul colle Esquilino, che fin dal VI secolo prese la denominazione di Sancta Maria ad praesepem, inizialmente consisteva in un oratorio riproducente la simbologia strutturale della grotta di Betlemme. I numerosi pellegrini che tornavano a Roma dalla Terra Santa, portarono in dono preziosi frammenti del legno della Sacra Culla (cunabulum) che ancora oggi si conserva nella teca dorata della Confessione. Anche nella Basilica Vaticana e in quella di Santa Maria in Trastevere, furono costruite delle cappelle che conservano, nei loro antichi titoli, la denominazione ad praesepem.

Fino al XII secolo, l’iconografia della Natività non celebra la povertà della nascita del Bambino Gesù, in una grotta al freddo e al gelo, ma esalta la regalità di Cristo. Nel periodo tra il XII e il XIII secolo, l’arte trionfale lascia il posto alla rappresentazione popolare che, riappropriandosi dei racconti apocrifi, identifica il Bambino Gesù povero della mangiatoia con la gente povera di Betlemme, dando vita anche negli spazi basilicali alle sacre rappresentazioni della nascita del Salvatore. In questo contesto di riappropriazione del sacro, dunque, in cui le scene della Natività, sottoposte ad un processo di “umanizzazione”, risentono di una più “carnale” devozione del popolo verso il mistero della nascita di Gesù Bambino, si colloca il cosiddetto “Presepio di San Francesco a Greccio”, la cui devozione all’umanità di Cristo è nota sia dai suoi scritti sia dalle prime biografie del santo.

Il desiderio di rievocare la nascita di Gesù maturò nel 1223, dopo il viaggio che San Francesco fece in Palestina. Egli chiese a Giovanni Velita, castellano di Greccio, di disporre dei suoi boschi dove poter celebrare il Natale nel modo più vero possibile, per constatare concretamente la povertà e le difficoltà nelle quali era nato il Bambino Gesù. Durante la notte di Natale di quell’anno San Francesco rievocò la nascita di Gesù, organizzando una rappresentazione vivente di quell’evento. Vi preparò una grotta, la mangiatoia, il fieno, e vi fece condurre un bue e un asinello, per riprodurre quel lembo di Betlemme che fu lo specum Salvatoris.

Celebrò la messa sulla mangiatoia e, secondo le agiografie, durante la messa sarebbe apparso nella mangiatoia un bambino, che San Francesco avrebbe stretto tra le braccia. In tal modo il Santo volle rendere più accessibile e di facile comprensione ai fedeli, il mistero dell’incarnazione.

Da quel momento Betlemme e Greccio divennero una cosa sola: a Betlemme si operò il mistero della divina incarnazione di Cristo, a Greccio, per la pietà di San Francesco d’Assisi, ebbe inizio la mistica rievocazione del Natale del Signore.

Come San Francesco, ogni uomo e donna ha bisogno di segni mediante i quali esprimere la propria interiorità e il proprio spirito religioso. La Chiesa ha sempre dato importanza ai segni, soprattutto a quelli liturgico-sacramentali, vigilando su eventuali derive superstiziose. Il presepe è uno di questi segni attraverso i quali il cristiano, rievocando l’evento storico dell’incarnazione, è spronato a celebrare e vivere il mistero salvifico ivi contenuto. Il “Direttorio su pietà popolare e liturgia” sostiene che «oltre alle rappresentazioni del presepio betlemita, esistenti fin dall’antichità nelle chiese, a partire dal secolo XIII si è diffusa la consuetudine, influenzata senza dubbio dal presepe allestito a Greccio da San Francesco d’Assisi nel 1223, di costruire piccoli presepi nelle abitazioni domestiche. La loro preparazione (in cui saranno coinvolti particolarmente i bambini) diviene occasione perché i vari membri della famiglia si pongano in contatto con il mistero del Natale, e si raccolgano talora per un momento di preghiera o di lettura delle pagine bibliche riguardanti la nascita di Gesù» (104).

 

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