“Il male che viene fatto ai bambini è un segno che rimane per tutta la vita. È una cosa gravissima, per questo il Papa sta cercando tutti mezzi per sradicare questo male nella Chiesa ed essere così anche un simbolo di trasparenza e impegno per tutti”.
Parte da questa notazione il commento di Padre Gianfranco Ghirlanda, professore emerito della Facoltà di diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, al rescritto firmato da Papa Francesco con cui viene promulgata l’Istruzione “Sulla riservatezza delle cause” e abolito il “segreto pontificio” sui casi di abusi, violenze sessuali e pedo-pornografia da parte di chierici a danno di minori. Padre Ghirlanda ha di recente pubblicato il volume “Il sacramento dell’ordine e la vita dei chierici”.
È una novità importante, professore. L’ha sorpresa?
Non molto, già nel Motu Proprio “Vos estis lux mundi” queste cose erano state dette. Adesso è una precisazione. Credo però sia importante ricordare quanto già stabiliva l’articolo 3 di “Vos estis lux mundi”, e cioè che l’abolizione di questo segreto non va confusa con con l’abolizione del sigillo sacramentale, che non viene in alcun modo intaccato, perché il prete che viola il sigillo sacramentale è scomunicato ipso facto e con scomunica riservata alla Santa Sede. Il sigillo è come una pietra: non può essere rimossa in nessuna maniera. Sempre in quell’articolo 3 viene protetta anche la direzione spirituale, facendo riferimento al canone 1.548 paragrafo 2. Sono due punti fermi e ora in questa Istruzione viene protetta anche la riservatezza delle indagini stabilita dal canone 471 n. 2, cioè il segreto di coloro che lavorano negli uffici della curia. Sia il Motu Proprio sia l’Istruzione proteggono effettivamente questi tipi di segreto che sono per la Chiesa sacri.
Quanto sarà a “discrezione” delle diocesi questo processo di trasparenza? C’è da sperare in un pari trattamento dei processi in tutto il mondo?
No, non c’è margine di discrezione, perché per questi delitti più gravi - e qui parliamo di diritti più gravi – la competenza è della Congregazione per la Dottrina della fede. Gli ordinari fanno l’investigazione previa dove effettivamente tutta la procedura istruttoria è protetta da segreto, perché ancora non si sa se ha fondamento o meno l’accusa. Questa procedura viene fatta a livello locale. Poi la Congregazione decide se giudicare essa stessa oppure lasciare il giudizio al vescovo. Ma è la Congregazione che lo decide. Il vescovo deve seguire sia le leggi universali, e quindi il Motu Proprio, sia le altre leggi riguardanti questi delitti, e quindi anche questi Rescritti pubblicati.
Lei è molto vicino a Papa Francesco, cosa c’è dietro?
C’è quello che c’era dietro anche agli due altri Papi: San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che hanno preso seriamente la questione. Papa Francesco sta prendendo iniziative sul piano legislativo e quindi normativo che specificano il modo di intervenire e la procedura da seguire per rendere più efficace l’intervento della Chiesa dal punto di vista canonico.
Che messaggio sta dando anche ad altri settori dove purtroppo si consuma la pedofilia?
Un segnale forte che invita tutti ad aprire gli occhi su un fenomeno che deve essere esaminato con attenzione e in maniera seria, e in tutti i settori, perché la pedofilia e gli abusi, purtroppo, avvengono non solo nella chiesa, ma anche in ambito familiare, nei club sportivi, nelle scuole. Se ne parla pochissimo e quasi sempre in relazione alla Chiesa cattolica. Il Papa dà dei segnali e dice: noi prendiamo seriamente questo fenomeno e cerchiamo di fare il più possibile, anche nella formazione dei seminari dove si sta insistendo sulla formazione umana, psicologica e affettiva perché si arrivi ad essere prete con un adeguato equilibrio psico-affettivo. Se non si va alla preparazione dei candidati, non si eradicano i problemi. Si agisce sugli effetti ma non si va alle cause.
Tornando al sigillo sacramentale: in Australia c’è un dibattito perché venga tolto a favore della giustizia per le vittime. Rivendicarlo, appare agli occhi della gente una posizione non popolare.
La Chiesa ha a che fare con la coscienza delle persone nella quale agisce “strumentalmente” rispetto a Dio. Capisco che un governo civile e laicizzato non lo comprende, ma la Chiesa a questo sigillo non può rinunciare.
Perché?
È in gioco la protezione della coscienza della persona. Cioè quando uno entra in rapporto con la coscienza della persona nella confessione e anche nella direzione spirituale, la persona consegna la sua coscienza per chiedere la Misericordia di Dio ed essere accompagnato a rimediare al male commesso. Questo è l’ambito della coscienza. Ciò non toglie che se il delitto è pubblico, anche nell’ambito canonico deve essere punito ma il confessore non può denunciare se ha saputo il fatto nella confessione.
E cosa può fare?
Niente. Pregare.
Può però convincere la persona ad autodenunciarsi.
Può dire alla persona: ‘Se tu sei veramente pentito per quello che hai commesso, devi essere disposto anche a sottometterti alle conseguenze civili. Ma c’è un principio fondamentale del diritto, di ogni diritto, anche nell’ambito civile, e cioè che nessuno è obbligato a denunciare se stesso. Il confessore o il padre spirituale possono dire: ‘Guarda, tu hai preso coscienza del male che hai commesso e devi fare in modo affinché sia rimediato il danno che tu hai fatto a questo bambino. È un danno veramente grave e devi subire le conseguenze anche dal punto di vista civile’. Però non può obbligarlo a farlo perché nessuno è tenuto a denunciare se stesso. Diverso invece il caso in cui viene incolpata un’altra persona: si è obbligati a denunciare se stessi per salvare questa persona.
È un punto che si fa fatica a capire. Perché tutto questo riguardo verso il colpevole in confessione?
Perché siamo nell’ambito della coscienza che appartiene solo a Dio. Per cui sono pienamente d’accordo sia con il Motu Proprio sia con la Istruzione, ci sia la maggiore trasparenza possibile e la più piena collaborazione con gli organi dello Stato ma la Chiesa giustamente tutela quei campi che le sono propri e a cui non può rinunciare perché altrimenti va contro la sacralità della coscienza che, ripeto, appartiene a Dio. E il confessore vi entra perché la persona gli permette di entrare nella garanzia che ciò che dice in confessione non verrà mai rivelato, altrimenti non si confesserebbe. Dice la Scrittura: Dio non cerca la morte del peccatore ma vuole che si converta e viva. Nella confessione, la Chiesa si mette a disposizione del peccatore affinché si converta e viva. Ci saranno altre vie, e cioè il processo canonico e civile, per arrivare a determinate conseguenze ma siamo in un altro ambito e le due cose vanno ben distinte e protette.