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La notizia che l’Alta Corte australiana ha prosciolto il cardinaleGeorge Pell da ogni accusa, ordinandone la scarcerazione dopo 400 giorni di detenzione in un carcere di alta sicurezza, ha riempito di gioia il mio cuore.

 

 

 

Qualcuno dopo la sentenza ha detto: “Allora è innocente!”. Sulla connessione causale automatica tra sentenza e innocenza io non concordo. Non è che il cardinale Pell sia innocente perché l’Alta Corte lo ha prosciolto; egli è innocente perché non ha mai commesso gli abusi che gli erano stati ingiustamente addebitati e perché nessuna prova logicamente valida era stata formata contro di lui.

Occorre liberarci dal velo di ipocrisia che avvolge spesso la vita giuridica e sociale. L’effato di una sentenza definitiva “pro veritate habetur”. Ma non racchiude necessariamente la verità. Certo, occorre rispettare le sentenze, come anche le leggi. La legge umana, però, contraria al diritto naturale, non è vera legge, “sed legis corruptio” (San Tommaso, Summa Theologie, I-II, q. 95, a.2). Quindi, non obbliga in coscienza il cittadino. La sentenza può essere ingiusta per dolo o per colpa del giudice o di altri soggetti protagonisti dell’accusa, ovvero per una serie di contingenze casuali che hanno falsato l’accertamento della verità. Alla sentenza ingiusta il condannato soggiace come a una violenza superiore cui egli non può resistere.

L’esecuzione di una pena recata da una sentenza ingiusta fa del condannato un testimone nascosto della verità. Il cardinale Pell, che ha subìto ingiustamente la detenzione per 13 mesi, ha portato in se stesso la sofferenza della pena a testimonianza della verità.

Come accennato in precedenza, l’ingiustizia della sentenza può derivare dal dolo o dalla colpa del giudice, dell’inquirente o dell’accusatore, ovvero dall’assommarsi di circostanze sciagurate che hanno deviato senza colpa di alcuno l’accertamento della verità.

Affinché siano il più possibile scongiurati gli errori giudiziari, la sapienza giuridica di tutti i tempi, anche di quelli più severi e inesorabili verso il delitto, ha predicato il massimo rigore nella valutazione delle prove. Giacomo Menochio, grande giurista italiano della seconda metà del ‘500 - un’epoca non certo tenera nella punizione dei colpevoli - scriveva: “Probationes dubiae admittuntur in criminalibus ad probandi accusati defensionem, nec non testes de sola credulitate deponentes” (De Praesumptionibus, conjecturis, signis et indiciis, Commentaria, Liber V, Praesumptio III, 50, 651) e concludeva: “Accusatoris probatio debet luce meridiana esse clarior et redditur dubia ex qualicumque accusati probatione” (Ibidem, 52).

In queste massime era inciso il valore inconcutibile del principio che la prova dell’accusatore è inaccettabile quando vi sia anche un solo indizio contrario che ne oscuri l’assoluta chiarezza. Onde il giudice deve assolvere l’imputato quando ricorra una ragione non capziosa di dubbio che infici la prova di colpevolezza. Non importa che il giudice sia convinto in coscienza di poter superare il dubbio indotto dalla prova difensiva. Decisivo è che una ragione oggettiva di dubbio sia affiorata nel processo.

Il principio “In dubio pro reo”, che si esprime nel diritto contemporaneo con la formula che la condanna può essere legittimamente pronunciata soltanto allorché la responsabilità sia stata provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”, è un principio di diritto naturale. In effetti, la sua radice sta in una verità metafisico/antropologica in ordine alla natura dell’uomo. Se egli è per natura buono, poiché la ragione, che deve governare per natura le potenze dell’anima, lo inclina al bene, nonostante la tendenza in lui presente che lo trascina al male, e se l’uomo va riguardato, in relazione al suo statuto giuridico, nella sua essenziale dignità - che sta nella ragione che lo inclina al bene - è evidente la razionalità giuridica della presunzione di innocenza dell’accusato.

La presunzione è regola pratica essenziale al giudizio, soccombente soltanto di fronte alla prova certa del contrario. Per Francesco Carrara, che insegna di prestare particolare attenzione al fondamento metafisico del diritto penale, “la presunzione di innocenza, e così la negazione della colpa” è principio metafisico e dogma fondamentale statuito dalla ragione (Carrara, Opuscoli di diritto criminale, V, Prato, 1881, 17 s.).

La Corte Suprema australiana ha prosciolto il cardinale Pell sul rilievo che esisteva la possibilità significativa che fosse stato condannato un innocente. Dunque, ricorrevano elementi di prova che oggettivamente non consentivano di superare il “ragionevole dubbio” della sua innocenza. I giudici che l’avevano condannato nei gradi precedenti di giudizio hanno violato la legge processuale australiana e, più ancora, il principio di diritto naturale che ne è il fondamento. È evidente che il luogo, il tempo, le circostanze tutte in cui sarebbe stato compiuto il gesto illecito, secondo la narrazione dell’unico accusatore, erano intrinsecamente incompatibili con il normale svolgersi dei fatti umani. Certo, è possibile che accada anche un evento assolutamente inverosimile. Ma l’inverosimiglianza oggettiva di un accadimento costituisce ragione sufficiente per l’obbligatoria esclusione dall’accusa a meno che non si provi la circostanza particolare che, nel caso concreto, avrebbe reso possibile ciò che è inverosimile secondo l’ordinario accadere dei fatti umani. Ma di tale circostanza non vi è traccia nelle sentenze invalide e nulle di condanna.

Ma qualcosa di più va detto. Il dictum dell’unico accusatore era contraddetto dalla testimonianza giurata e solenne di almeno 20 testimoni, non sospettabili in alcun modo di mendacio. Anche per questa seconda ragione l’accusa non poteva essere creduta come vera “oltre ogni ragionevole dubbio”. E ancora: il lungo tempo intercorrente dal fatto supposto alla presentazione della denuncia costituiva un ulteriore motivo di inattendibilità soggettiva dell’accusatore, a cagione dell’innumerevole serie di spinte che potevano averlo determinato alla dichiarazione, dalla volontaria calunnia all’autosuggestione o all’influenza di fattori esterni agìti da quella parte di mondo che insuffla nelle menti più fragili l’idea fallace che le persone dotate di autorità morale siano i colpevoli tipici degli atti di abuso.

Perché, allora, nonostante la palese ricorrenza di elementi che impedivano di affermarne la colpevolezza, il cardinale Pell era stato condannato nei precedenti gradi di giudizio?

Va messa in luce, anzitutto, l’ipotesi della colpa dei giudici. Si tratti di dolo o di negligenza, non par dubbio che una colpa vi sia stata. La violazione della regola dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” sta nella realtà delle cose. È stata, peraltro, asseverata senza remore dal giudice supremo. Non è possibile qui andare oltre per verificare se vi sia stata soltanto negligenza o addirittura dolo nella violazione della legge. Ricercare l’intenzione nella mente del giudice che emette una sentenza falsa è cosa assai ardua. Va ammesso che il suo compito è difficile. Epperò è tanto più grave la violazione di legge quanto più palesi si siano manifestate le ragioni oggettive di dubbio che impedivano la pronuncia di condanna.

Che si sia trattato di dolo o di negligenza non è qui rilevante. Ciò riguarda il grado di colpevolezza morale dei giudici, che sfugge alla valutazione in sede giuridica e sociale. Importa, piuttosto, rilevare che il clima sociale in cui si sono celebrati i processi di merito era avvelenato da un desiderio diffuso di persecuzione della Chiesa nella sua gerarchia sacerdotale.

Vi sono ulteriori aspetti della vicenda meritevoli di considerazione. La presunzione di innocenza si radica metafisicamente sull’assunto che l’uomo è per sua natura buono, siccome inclinato da Dio al vero, al buono e al giusto, e che la spinta verso il male è conseguenza della caduta e della decadenza. Chi giudica deve per stretto dovere di giustizia presumere che il giudicabile sia buono. Il male dell’azione illecita, pertanto, deve essere rigorosamente provato. Nell’epoca contemporanea si è diffusa ubiquitariamente una concezione opposta, alla stregua della filosofia del sospetto e, più ancora, del relativismo etico del pensiero debole. Non vi sarebbe distanza tra bene e male. Comunque, nella società dell’homo homini lupus, gli uomini e le donne, incentrati tutti sull’autoreferenzialità del proprio io, non avrebbero in se stessi traccia alcuna di bontà. Quando l’apparenza esterna cade, nessuno, pertanto, può presumersi buono.

La presunzione di innocenza, dunque, che è regola pratica di giudizio e, prima ancora, corollario di un principio metafisico, viene rovesciata. Nella confusione mediatica in cui avvolge spesso l’esercizio dell’attività giudiziaria, la regola pratica non è la presunzione di innocenza, bensì di colpevolezza. Ancor più: la presunzione di colpevolezza si rende onnipervadente allorché alla generica malizia della curiosità che si compiace dei mali altrui si aggiunge l’invidia per le persone dotate di autorità cadute in disgrazia. In grado massimo questa malizia esplode con furia quando la vittima sia un sacerdote di Cristo. La malizia ordinaria si rafforza allora con l’odio contro la Chiesa e il sacerdozio.

Né va trascurato, infine, il sottile e perfido operare delle potenze delle tenebre. Come l’astuzia del Nemico ha fatto cadere in peccati abominevoli alcuni componenti della Chiesa gerarchica, così la medesima astuzia approfitta della confusione babelica che ha avvolto il mondo secolarizzato per aggredire chiunque sia consacrato nel segno di Cristo, allo scopo di coinvolgerlo in un’aurea indiscriminata di sospetto e di generica colpa.

Le dichiarazioni rese dal cardinale Pell subito dopo la liberazione costituiscono un nobile esempio di verità e di umiltà.

Per un verso, egli è rifuggito dal mettersi al centro della scena. Non si è infatti vanamente proposto come simbolo di una vittoria consumata sugli accusatori o sui giudici. La resiudicanda non concerneva il modo in cui la Chiesa cattolica aveva affrontato negli ultimi decenni il crimine di pedofilia nel clero, bensì la sua personale responsabilità di uomo e di sacerdote per i crimini terribili di cui era stato accusato. Per altro verso, egli ha manifestato il desiderio buono che al dolore patito non si aggiunga altro dolore in capo a coloro che lo avevano accusato o ne avevano in qualche modo sostenuto e fomentato la condanna.

Non si deve infine trascurare la cosa più bella. L’arcivescovo emerito di Sidney ha conservato la fede. Il desiderio più vivo che ha immediatamente manifestato dopo la liberazione è stato infatti di poter subito celebrare la santa messa.

                                                                                                                                                                                                                                *Centro Studi Livatino

 

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