“Mi fa tanto male… non ce la faccio più… Il canto del violoncello fa commuovere il paziente, suo figlio e suo nipote e li culla tutti insieme. E piangono tutti e tre, appiccicati uno all’altro, come una statua congelata, plasmata dalla sofferenza”.
Una violoncellista francese, Claire Oppert, diplomatasi al conservatorio statale di Mosca “P. I. Tchaikovsky”, nonché filosofa, suona per i pazienti gravi, per i ragazzi autistici, per gli affetti da schizofrenia. Non solo allieva il loro dolore, ma dà vita ad un nuovo protocollo, “La cura Schubert”, che, secondo un primario può essere tradotto nella formula “10 minuti di Schubert=5 mg di Oxynorm (un antalgico simile alla morfina, ndr)”.
Incontriamo Claire nel suo tour di presentazione del libro ispirato a questa esperienza, La cura Schubert (Fuorilinea, 175 pagine, 16 euro, trad. di Véronique Viriglio) e le chiediamo cosa prova quando si accorge che ciò che non riesce alla medicina talvolta accade suonando il violoncello per chi non dava segni di vita e che invece alle note di un’aria denota “una notevole estensione toracica durante l’esecuzione musicale” o quando assiste all’abbraccio di un papà in preda al dolore che riesce a stringere a sé i figli alle note di Bach. “Le mie sensazioni variano in funzione delle circostanze, ma in generale provo molta gratitudine per i benefici che la musica dal vivo riesce a dare ai pazienti in fin di vita, in situazioni in cui si pensa che non avrebbero provato nulla, e invece… Per me osservare questi benefici rappresenta anche una gratificazione in quanto conferma dell’intuizione alla base del mio lavoro e del mio ‘giusto posto’ nella stanza dei pazienti che accompagno con la vibrazione del mio violoncello, lo strumento il cui suono è più vicino alla voce umana”.
La scoperta del potere attenuante, lenitivo e rassicurate della musica è stato graduale o è apparsa improvvisamente al suo orizzonte?
Ad essere sincera non ho inventato nulla, nel senso che i poteri dell’arte in generale sull’essere umano risalgono alle origini dell’umanità. Ricordiamoci che l’arpa del piccolo pastore Davide era l’unica a calmare le crisi nervose del Re Saul. Da filosofa mi viene da citare la saggezza antica e la filosofia greca, per le quali della musica era già noto il potere espressivo, di movimento, catartico ed educativo – nell’accezione di Platone-, ovvero di penetrare l’anima prima di raggiungere la ragione. Sin da giovane ho avuto l’intuizione molto forte che avrei voluto e potuto farlo col mio violoncello. Le prove tangibili sono apparse nel corso dei miei 25 anni di esperienza accanto ai malati affetti da patologie neurodegenerative, come l’Alzheimer, a pazienti in fin di vita e a grandi autistici, confermando così la mia intuizione iniziale. Queste prove sono contenute in diversi studi clinici realizzati con un team multidisciplinare. In tutto ho suonato per oltre 2mila pazienti ma il protocollo della Cura Schubert è il frutto di 5 anni di interventi su 112 pazienti, nei quali in presenza del canto del violoncello il dolore durante le cure è diminuito tra il 10 e il 50%. Va, però, sottolineato che il violoncello nelle stanze di ospedali non può sostituirsi alla morfina, non può limitare tutti i dolori né respingere la malattia grave e far guarire ma allevia il fardello, riesce a far vivere attimi di gioia, di vita residua e di condivisione con i propri cari. La musica è quindi un complemento terapeutico fondamentale all’interno di un team pluridisciplinare.
Qual è stata la soddisfazione più bella e sconvolgente della sua attività?
Un incontro che mi ha segnato in particolare, anche perché si tratta di una ‘storia’ durata ben 5 anni, è stato quello con la signora Kessler. È proprio con lei che, quasi casualmente, ho eseguito il mio primo ‘pansement Schubert’, o meglio come lo chiamiamo in termini scientifici “contro stimolazione sensoriale durante cure dolorose”. In un centro per anziani non autosufficienti (Ehpad) del XIV arrondissement di Parigi dove l’ho conosciuta, la signora Kessler ha poi partecipato a tutti gli spettacoli di ‘arte totale’ da me organizzati, diventandone un personaggio principale. Successivamente ho ritrovato la paziente nell’unità di cure palliative dell’ospedale Sainte-Périne, dove l’ho accompagnata nel fine vita.
Secondo lei perché Schubert, Bach, Albinoni e non molti altri autori riescono ad alleviare il dolore?
Come indica il nome del protocollo sanitario e il titolo del libro, Schubert è stato l’iniziatore di tutto, ma non è possibile stilare una classifica degli autori in base alla loro ‘efficacia’ sui pazienti. Se è vero che suono maggiormente musica classica, più rilassante, a volte i pazienti vogliono qualcosa di più movimentato, e funziona, che sia jazz, canzone francese, persino rap. Tutti i generi musicali che arrivano a raggiungere la persona nella sua complessità interiore hanno questo potere.
I medici si sono dimostrati tutti d’accordo sulla efficacia della cura Schubert?
Il 100% dei medici con cui ho lavorato in unità di cure palliative è d’accordo sulla sua efficacia. Va detto che quelli che lavorano in unità di cure palliative sono particolarmente aperti a tutte le dimensioni dell’essere umano. Concretamente significa che non trattano soltanto la sofferenza fisica del paziente ma si occupano della sua sofferenza globale: corporea, sensoriale, spirituale ed emozionale. Tutti i dolori sono come incastonati l’uno con l’altro, quindi serve una pluralità di approcci e di risposte con l’obiettivo di diminuire i sintomi mettendo sempre l’essere umano al centro. C’è una coscienza di finitudine e un’umiltà in quei medici che abbandonano l‘onnipotenza. “Le cure palliative sono tutto quello che rimane da fare quando non c’è più nulla da fare” diceva la dott. Thérèse Vannier, precursore in questo ambito. Un approccio di questo tipo riesce a valorizzare tutta una parte dell’essere sofferente e in fin di vita: la sensibilità all’arte, l’immaginazione, la creatività, l’espressione, l’idealizzazione, oltre al potere interrelazionale. La musica riesce a raggiungere quel ‘sottoterra’ che rimane vivo, seppur in una parte molto limitata, fino all’ultimo respiro o quasi, facendo sentire il paziente ancora vivo, in grado di sentire le vibrazioni del violoncello che raggiungono il cuore, amplificano il suo respiro e fanno persino provare gioia per un’ultima volta.