Ero già parroco da quasi tre anni quando, nel 2011, ho subito l’incidente d’auto che mi ha reso tetraplegico.
Ho trascorso tredici mesi in ospedale per la riabilitazione e non sono mai stato lasciato solo: parenti, amici, amiche e parrocchiane e parrocchiani hanno utilizzato ogni minuto degli orari di visita ai malati per venirmi a trovare, anche se mi trovavo in un’altra città e negli ultimi due mesi in un’altra Regione. Nel periodo in cui affrontavo un cambiamento radicale della mia vita e della mia persona, sentirmi amato e benvoluto ha fatto la differenza: ho ricevuto parole e gesti d’amore che mi hanno riempito di gioia anche se stavo affrontando una perdita importante.
Il meglio di sé però lo hanno dato quando il Consiglio pastorale al completo è venuto a trovarmi e ha letto la lettera con la quale si chiedeva al vescovo che io rimanessi a Santa Sofia (a Padova, ndr) come parroco.
Fino a quel momento pensavo che avrei provato a riciclarmi come insegnante della Facoltà teologica del Triveneto, nella quale ancora adesso tengo un corso ad anni alterni, ma a quel punto mi sono detto: “Se ci credono loro, ci devo credere anch’io”.
Così, con la generosità di molti, sono state eliminate le barriere architettoniche in canonica e in chiesa, mi sono stati forniti diversi ausili e alcune persone sono diventate ministri straordinari della comunione che a turno, a due a due, mi aiutano a celebrare la messa girando le pagine del messale e mettendomi in mano il calice e la patena.
Ho saputo dopo qualche mese dal mio rientro in parrocchia che il mio vicino di letto all’ospedale, un pilota che gareggiava con le auto e le moto, ha deciso di andare in Svizzera a concludere la sua esistenza. Non lo giudico, anzi lo capisco, ma per me è stato diverso perché lo scopo della mia vita non era gareggiare e nemmeno andare in montagna, anche se mi piaceva moltissimo camminare e arrampicare: ho dedicato la mia vita all’annuncio del Vangelo e questo ho potuto farlo ancora.
Ho pensato a San Paolo agli arresti domiciliari a Roma (perdonate la presunzione), che era in catene ma poteva ricevere visite e quindi continuava ad annunciare il Vangelo. A volte io pure mi sento quasi agli arresti domiciliari, anche a dire il vero se gli amici mi hanno regalato un’automobile attrezzata, al posto di quella che si è distrutta, e ogni tanto organizziamo delle bellissime gite. Ma anche se adesso faccio vita quasi monastica, posso ancora annunciare il Vangelo e a differenza di San Paolo ho anche l’opportunità di utilizzare il telefono, internet e i social media….
Qualcuno dice che sono bravo, ma in realtà sono stati i miei parrocchiani e parrocchiane a trovare il modo di valorizzarmi per quel che posso ancora dare. La comunità, o almeno la parte più attiva di essa, si è mobilitata per creare le condizioni che rendono possibile la prosecuzione del mio ministero. Con gratitudine accolgo tutti i doni materiali e immateriali che mi sono stati fatti e cerco di corrispondere come posso. Probabilmente ci sono anche altre persone con disabilità che potrebbero dare un contributo alla vita della Chiesa, se fossero accolte come sono stato accolto io.