Ogni anno la festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) segna l’inizio del Carnevale che si conclude il martedì grasso, determinato dalla data di inizio della Quaresima, a sua volta dipendente da quella della Pasqua.
Com’è noto, il Carnevale è l’eco di cerimonie che si svolgevano nella Grecia e nella Roma antiche, in onore del dissoluto Dioniso, e che avvenivano in un periodo di licenza dalla legge e dai rigori della moralità: i partecipanti davano sfogo a passioni e piaceri di tipo prevalentemente sessuale e gastronomico, in un clima di autentica baldoria ed anche di ribaltamento dei ruoli canonici.
Il Carnevale moderno contiene ormai labilissimi elementi di quelle celebrazioni. Non so quanto sia osservato il copione di un tempo il quale prevedeva che al capezzale del Carnevale morente (il martedì grasso), partecipassero le prefiche-questuanti (uomini travistiti da donne). Con le loro lamentazioni funebri non esprimevano tanto il dispiacere per la scomparsa del gaudente e permissivo Carnevale, quanto il rammarico per la forzata e repentina astinenza da alcuni cibi nell’imminente periodo quaresimale. Ciò avveniva alla presenza della raffigurazione della morte di un pupazzo, ottenuto con vecchi abiti pieni di stracci o paglia, disteso su un carrettino addobbato di pampini e stelle filanti, seguito ovviamente da una turba di ragazzini vocianti, al centro della parodia di un immaginario processo rituale, presenziato da (finti) uomini togati, incaricati di leggere la sentenza della sua condanna e la redazione del suo testamento, in un contesto di danze e canti funebri da parte delle maschere presenti che mostravano seni enormi o gravidanze eccezionali con le quali si mimava il tema della fertilità.
Le rappresentazioni prevedevano l’esecuzione di un intervento chirurgico sulla pancia del pupazzo da cui venivano estratti prevalentemente cibi: formaggio, salame, salsicce (per antonomasia il cibo carnevalesco), polli ed altri animali da cortile (vivi) il cui svolazzare o lo scappare spaventato, costituiva l’incentivo alla comicità generale. Nel mondo contadino il mascheramento attraverso abiti femminili era consentito agli uomini, mentre alla donna era vietato di mascherarsi e di partecipare alla trasgressione che animava la festa.
Scarmigliandosi e colpendosi ripetutamente al petto le prefiche (a Lecce) recitavano: È muertu lu Paulinu! Lu Paulinu miu, chinu te mbrogghie: osce maccarruni e crai fogghie! (È morto Paolino! Il mio Paolino, coperto di stracci: oggi maccheroni e domani verdure!). Portato il fantoccio in piazza, il momento culminante era sottolineato dal suo incendio; il rito aveva la funzione di purificazione e di espiazione delle colpe e dei peccati di tutti i presenti.
A Gallipoli il pupazzo viene chiamato lu Tidòru, il Teodoro. Tutti invocavano e gridavano: “Titoru meu, Titoru cci ccappasti. Cu nna purpetta mucca te nfucasti” (Teodoro mio, Teodoro cosa capitasti. Con una polpetta in bocca ti affogasti).
A Calimera la sera del martedì grasso il padre di famiglia infilava ad un cappio di spago sottile un uovo sodo sgusciato e, facendolo dondolare dinanzi alla bocca di un giovanetto, lo sollecitava ad addentare il boccone mobile. L’impresa avveniva fra le risa di tutti a causa della curiosa lotta tra l’uno che manovrava con arte per impedire che l’uovo venisse addentato, e l’altro che, invece, cercava ad ogni costo d’impossessarsi dello stesso, attraverso gli sforzi più comici o le smorfie più strane. Oppure si giocava al “diflocco”, parola dialettale grika che vale “bendaggio per occhi”. Consisteva nel bendare, infatti, a turno, gli occhi di ciascun presente, munirlo di un lungo bastone, fargli compiere cinque o sei giri sulla propria persona al fine di disorientarlo e invitarlo a guadagnarsi l’uovo - posto non sgusciato in un determinato angolo della stanza - raggiungendolo e percotendolo col bastone. Era difficilissimo che il giocatore indovinasse la direzione giusta e raggiungesse il bersaglio. Accadeva spesso che si dessero energicamente colpi di mazza sulle gambe o, peggio, sulle teste degli spettatori distratti o non solleciti a scansarsi. Ed anche questo innocuo divertimento suscitava ilarità.
L’imperativo categorico di festeggiare il martedì grasso prevedeva eccessi gastronomici. La pietanza per antonomasia era costituita da polpette di carne al sugo e da carne te puercu (di maiale), popolarmente indicata carne te neru (di nero), o anche carne cu llu pilu (carne col pelo).
La filastrocca seguente ricorda che le polpette di carne condivano un ghiotto piatto di maccheroni che, a breve, sarebbero un ricordo lontano:
È scurutu lu Carniale È finito Carnevale
cu ppurpette e mmaccarruni, con polpette e maccheroni
mo’ me tocca ll’acqua e ssale ora mi tocca acqua e sale
e quattru cinque pampasciuni. con quattro cinque cipollette selvatiche.
Oltre all’eccezionale consumo di carne di maiale, era prevista un’abbuffata di dolci - al fine di raggiungere il senso di sazietà corporale e di pieno godimento dello spirito -, preferibilmente fritti, morbidi e quanto più possibile aromatizzati. Quali migliori simboli di trasgressione verbale, si confezionavano (e lo si fa tuttora) le chiacchiere altrimenti denominate bugie o frappe.
Dopo avere consumato le pietanze accennate, tajeddhre e pignate, pentole di terracotta, insieme a quatare, pentole di rame, a stoviglie, a tovaglie e tovaglioli, venivano lavati con acqua calda e aceto o con la lessìa, liscivia, oppure con la cenisa, cenere del focolare, ripetutamente e puntigliosamente, al fine di rimuovere anche il più infinitesimale residuo di grasso. In alcune famiglie lo scrupolo era tale che si preferiva addirittura rompere le pentole fino ad allora usate (giacché erano prevalentemente di coccio) e, nei giorni successivi, impiegare quelle nuove, precedentemente acquistate per l’occasione. Perfino la parte metallica della grattugia veniva passata sulla fiamma perché bruciasse ogni eventuale residuo di formaggio.
In alcuni centri del Salento, alle ore ventitré dell’ultimo giorno di Carnevale le chiese suonavano le campane per avvertire la popolazione che stava per cominciare il lungo digiuno della Quaresima; in altri centri, invece, accadeva che alla mezzanotte i sagrestani andassero in giro per le vie suonando un campanello e ricordando con tono monotono che la baldoria era finita.