La figura di san Bernardino Realino da Carpi (1530-1616) appartiene a quel singolare tesoro della memoria salentina che, caduto per molti versi in una sorta di profondo oblio, è doveroso tentare ora di riscoprire.
Le celebrazioni occorse nel 2016 per il IV centenario del transito di questo gesuita, emiliano di nascita ma leccese d’adozione, hanno certo avuto il merito di riproporre all’attenzione pubblica l’icona di un personaggio cui la città deve tantissimo. In tale ottica, particolarmente prezioso risulta il volume, curato da Mario Spedicato e Luisa Cosi, Defensor civitatis: modernità di padre Bernardino Realino magistrato, gesuita e santo, che raccoglie una collezione di notevoli studi sull’uomo che, già durante la propria esistenza terrena, veniva definito l’Angelo di Lecce.
Interessante e forse poco conosciuto è, ad esempio, il confronto che il santo ebbe con l’Islam da quando vestì l’abito della Compagnia di Gesù e, in special modo, dal momento in cui mise piede nelle contrade pugliesi. Correvano tempi cupi. Le fuste ottomane imperversavano nel Mediterraneo orientale costituendo un pericolo perenne per le coste italiche e costringendo i legni veneziani, maltesi ed ispanici ad un’agguerrita controffensiva. Lo stesso Realino, nel corso del suo lungo soggiorno napoletano (periodo durante il quale ebbe la vocazione, visse il noviziato e mosse i primi passi da religioso) vide salpare, nell’Agosto 1571, le galee della Lega Santa e fu raggiunto, qualche mese più tardi, dalla lieta notizia del trionfo di Lepanto. Bernardino avrebbe voluto, come facevano tanti suoi confratelli gesuiti, imbarcarsi per terre d’oltremare al fine di predicarvi il Vangelo ma se non riuscì ad appagare tale desiderio, trovò comunque il modo di dedicarsi ad un apostolato piuttosto simile, quello dell’evangelizzazione degli schiavi islamici.
Nella Lecce cinque-seicentesca non era affatto raro imbattersi in turchi o neri seguaci del Corano. Quasi sempre si trattava di prigionieri di guerra, cioè di ex-corsari barbareschi o membri degli equipaggi di Istanbul caduti nelle mani delle flotte cristiane dopo qualche violento scontro per mare. Condotti in Puglia, il loro destino era quello di essere impiegati nelle dimore delle famiglie nobili come forza lavoro o personale di servizio. Il Realino se li prendeva a cuore, cercando di istruirli e soprattutto di convertirli, non lesinando pazienza ed impegno. In ciò egli era imitatore dei numerosi santi della Chiesa che vedevano nella dottrina islamica una sorta di eresia giudaico-cristiana che, pur profondendosi in rispettosi inchini per il Nazareno, negandone però la natura divina, la morte redentrice e la resurrezione, faceva crollare il dogma trinitario-cristologico. Si stima che l’eroico gesuita, durante la sua permanenza nel Salento, abbia convertito circa duecento schiavi. Il giorno in cui si procedeva al battesimo di uno di questi catecumeni per Bernardino era una festa: le cerimonie avvenivano di norma in Duomo ed il neofita riceveva le congratulazioni dei maggiorenti della città.