0
0
0
s2sdefault

Per quel che ricordo il pranzo di Natale del passato non prevedeva un menu fisso e, pertanto, non ha in sé nulla di tradizionale. Ogni famiglia lo allestiva a seconda delle disponibilità economiche, la fantasia della cuoca - generalmente la mamma - e la disponibilità degli ingredienti da trasformare in pietanze.

Certamente queste dovevano connotare il pranzo festivo che si distingueva da quello del tempo ordinario, quotidiano e doveva contenere qualcosa che sottolineasse la solennità della ricorrenza che si stava celebrando. E alla tavola e ai cibi preparati si delegava la rappresentazione maggiore alla quale avrebbero fatto onore i commensali. Per esempio, chi aveva un pollaio, talvolta collocato sul terrazzo di casa, preparava la gallina in brodo col quale si condivano i “quadrucci” all’uovo o i ravioli o i vermicelli, i tagliolini fatti a casa. Il pennuto costituiva il “secondo piatto”.

Chi poteva permetterselo cucinava l’agnello, solitamente con le patate, al forno.

Ciò che proprio non dovevano mancare sulla tavola natalizia leccese erano le pittule e i dolci tradizionali: purceddhruzzi, ncarteddhrate. La pasta di mandorla, nella forma di pesce, appariva sulle mense te li signuri, letteralmente dei signori ossia dei benestanti.

Nella maggior parte dei casi, I dolci preparati in casa costituivano l’unico dono scambiato a Natale perché non erano all’ordine del giorno (come invece accade oggi) e non vi era l’usanza di regalare doni acquistati.

Se la dizione dei citati protagonisti dolciari accomuna tutti i centri della provincia di Lecce o, perfino, dell’antica Terra d’Otranto, con le ovvie impercettibili varianti o aggiunte di ingredienti, numerose sono le proposte che pretendono di definire l’esatta etimologia e svincolare i purceddhruzzi salentini dagli struffoli napoletani nel cui impasto vi sono, invece, le uova.

Neppure sui presunti progenitori vi è concordia d’opinione; per alcuni storici il collegamento è con alcuni dolci mielati che i Romani offrivano agli dei; per altri il termine purceddhruzzi o purciddruzzi deriverebbe da porcus perché la forma di ciascuno è simile al muso del maiale o all’animale per la forma incavata e grassottella. E così al suddetto termine si lega un’usanza, ormai del tutto dimenticata, quella di mangiare l’ultimo di questi dolcetti entro il giorno di S. Antonio Abate (17 gennaio), protettore del maiale: un esemplare lo affianca nell’iconografia.

Secondo Antonio Edoardo Foscarini, ricercatore di fonti bibliografiche, documentarie ed orali sulla tradizione gastronomica salentina, questi dolci natalizi deriverebbero dalle “focacce di grano cotte nell’olio ed intrise nel miele” che i salentini offrivano alla dea Minerva durante le Quinquatria maggiori, feste che si celebravano per cinque giorni, con inizio il primo giorno di marzo, intorno ai templi dedicati alla Dea. Il più noto e frequentato di questi templi sorgeva sul Promontorio di S. Maria di Leuca o Finibus Terrae, ma non meno inferiori erano quelli esistenti a Otranto, a Minervino (Fanum Minervae ossia piccolo tempio di Minerva), Castro (Castrum Minervae) e a Tricase (Portus Athaeneum).

Oltre alla forma sopracitata, ognuno si sbizzarrisce a farli come vuole e come meglio riesce, ma prevalentemente hanno forma di gnocchi incavati.

Esistono tante ricette quante sono le persone che vi si dedicano e, secondo me, i migliori purceddhruzzi sono a cui leghiamo qualche particolare e piacevole ricordo. Le forme sono diverse e, per esempio, i tocchetti grandi e medi di pasta si ripassavano sul retro della grattugia mentre quelli piccoli, più piccoli della falangetta del dito mignolo, si lasciavano così com’erano perché, una volta fritti, diventano simili ai ceci. Quando si deponevano nel piatto si decoravano con anisini e pinoli.

Per l’uso dei pinoli bisogna rifarsi ad una credenza cristiana secondo la quale l’albero del pino, insieme al cipresso ed al cedro partecipa al simbolismo di Cristo ed è ritenuto l’Albero della Vita.  Il pino è particolarmente stimato perché fornisce l’incenso, usato durante le funzioni religiose; richiama Gesù Bambino perché, quando si taglia verticalmente il frutto, il gheriglio appare somigliante ad una mano che ricorderebbe quella del Bambino in atto benedicente.

L’altro dolce tradizionale è costituito dalle ncarteddhrate la cui preparazione risulta non facile. Il termine ncarteddhrata, secondo il linguista G. Rohlfs, somiglia al calabrese ncartiddatu, cesta intrecciata; per altri, più propriamente, imita una striscia di carta accartocciata. Mai come in nessun altro vocabolo le interpretazioni sono molteplici e fantasiose: chi vede in questi cestini, per struttura e colore, la riproduzione dei rosoni delle chiese barocche salentine, e chi una “dalia bronzina” o la forma della chiocciola di terra o evocano le fasce del Bambinello. Chi le immerge nel vincotto e vi spolvera, dopo avere messo il miele, polvere di cannella. Insomma hanno un richiamo religioso, agreste, botanico, laico, aracnico, primitivo ed inspiegabile. A seconda della fantasia di ciascuno.

Interpretazioni e modi di presentarle a parte, parliamo di un dolce arcaico che, probabilmente, evoca le spirali  dolci fritte, di cui era ghiotto il faraone Ramesse III, della XX dinastia (115 a.C.), tanto da fare dipingere sulle pareti della propria tomba le fasi di lavorazione di queste frittelle: a forma di strisce arrotolate, si gettavano nello strutto bollente. Ben dorate, si lasciavano sgocciolare lasciandole appese al muro e poi si cospargevano di miele e semi di papavero (Papaver somniferum): ingredienti principali di una bevanda sedativa bevuta dalle giovani spose romane prima di coricarsi.

In tempi più recenti, tra le portate offerte durante il sontuoso pranzo di nozze di Bona Sforza con Sigismondo, re di Polonia (1517), figuravano oltre alle “pignolate” (a base di pinoli, zucchero e farina, cotte al forno); e le “cartelle” (paste dolci secche), le “nevole”, corrispondenti alle ncarteddhrate, (kalàngia, in greco) fatte con pasta molto sottile, fritta e condita con vino “conciato”, zucchero ed aromatizzata con cannella e chiodi di garofano.

La presenza della cannella e dei confettini multicolori fa ritenere che questo dolce ormai tipico della pasticceria regionale contenga influssi della cucina saracena.

A Natale la pasta di mandorla assume la forma di pesce; pure esso richiama l’immagine di Cristo poiché il pesce è anche nutrimento ed il Cristo risuscitato ne ha mangiato. Insieme al pane diviene simbolo del pasto eucaristico ed allusivo del battesimo del cristiano che, come il pesce, nasce nell’acqua battesimale: ecco spiegate le numerose figurazioni simboliche del pesce sulle pareti delle catacombe accompagnate dalla scritta Ichthys, ideogramma del nome di Cristo in lingua greca.

Secondo una credenza comune, il vero pesce di Natale è il luccio che nella propria testa ha ossicini molto simili agli strumenti di tortura di Cristo. Questa similitudine ha riscontro in un’antica leggenda che racconta che il Redentore trovò sostegno nel luccio quando camminò sulle acque agitate del lago di Genezareth.

Alcune popolazioni dove il luccio è diffuso, usano portare addosso un ciondolo che incastona un ossicino estratto dalla testa del luccio, la cosiddetta “crocetta” per allontanare il malocchio; alcuni marinai, invece, la portano cucita nelle vesti insieme all’immagine del loro protettore San Nicolò.

Di tutto altro genere, ma ugualmente superstiziosa è la consuetudine leccese secondo la quale bisogna rispettare precise istruzioni quando ci si predispone a  mangiare i pesci o gli agnellini di pasta di mandorla: perché portino fortuna non si devono tagliare dalla coda o dalla testa, ma al centro delle rispettive pance perché è lì che si nasconde il prelibato tesoro ossia la deliziosa faldacchiera (un delicatissimo zabaione cotto a bagnomaria senza che mai giunga a bollore, riconducibile agli arabi che, per un più agile trasporto, ne formavano palline avvolgendole nello zucchero e in polvere finissima di cannella e vaniglia, sciogliendole poi al momento), amalgamata agli altri ingredienti - spruzzati di liquore Strega - rendendoli quasi eterei. Il taglio sulla pancia pare che abbia un valore propiziatorio sui commensali e, naturalmente, su chi lo taglia: è categoricamente proibito effettuare il taglio prima di Pasqua o di Natale, altrimenti gli impazienti ghiottoni non vedranno i benefici della fortuna.

Così la tradizione. Che si tratti piuttosto di un espediente per consentire a pesci ed agnellini di arrivare integri sulla tavola per le festività? Si può essere giustamente sospettosi!

La preparazione dei dolci natalizi è parte integrante di una liturgia domestica che, per fortuna, ancora si conserva immutata nei gesti.

 

Forum Famiglie Puglia