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In Austria ed in Polonia è una figura nota a tutti perché la si conosce sui banchi di scuola. In Italia (fatta eccezione per la sua bella terra d’origine, il Friuli) resta un carneade. Eppure Marco d’Aviano (1631-1699) è un personaggio da epopea, l’uomo che salvò l’intera Europa dal terribile pericolo dell’invasione islamica.

Nel XVII sec. infatti l’Impero Ottomano, già impostosi in area balcanica, toccò il vertice della sua penetrazione in Occidente, giungendo a minacciare addirittura Vienna. Nessuna potenza europea sembrava in grado di misurarsi con la Sublime Porta. Cosicché l’Austria, per posizione geografica, era diventata l’autentico bastione della cristianità. Di una cristianità però che non sempre si ricordava di essere tale e preferiva lasciare al bastione il compito di sbrigarsela da solo contro le scimitarre turche. Del resto lo scrittore Evliya Çelebi, di gran fama nel mondo ottomano, visitando la capitale austriaca e mirando la torre di Santo Stefano, aveva parlato chiaro: «Voglia Allah concedere che questo campanile diventi un minareto e che un giorno qui risuoni il richiamo della preghiera». Da allora, agli occhi dei saraceni, Vienna era divenuta la mitica “mela d’oro”, il frutto proibito e tanto agognato che si ambiva cogliere.

Vari erano stati i tentativi di attacco già nel corso del ʼ500 ma furono nulla rispetto a ciò che accadde nel fatidico 1683. Durante l’estate di quell’anno, che resterà scolpito nella memoria collettiva austriaca, il più poderoso esercito islamico che mai fosse giunto a calcare il suolo europeo cinse d’assedio le mura di Vienna. Trecentomila uomini comandati dal gran visir Kara Mustafà si erano mossi al seguito dei verdi stendardi del profeta. Oltre ai temutissimi giannizzeri ed ai tartari del khan Murad Giray, si videro gli akinci della cavalleria leggera, i genieri musellem esperti nel minare roccaforti, i piade della fanteria, gli spahi della cavalleria pesante e gli azapi, una massa di guerrieri selvaggi cui erano affidati i primi assalti. Alla spedizione partecipava anche Ahmed Bey, un cappuccino francese rinnegato, votatosi ormai alla causa del jihad. Quando fu scatenato l’attacco il campanone della cattedrale iniziò a suonare costantemente a martello tanto che i viennesi lo chiamarono Angstern, angoscia. Era chiaro comunque che se Vienna fosse caduta il sogno del sultano Maometto IV di abbeverare i propri cavalli alle fontane di Piazza San Pietro a Roma non sarebbe apparso più tanto irrealizzabile.

Le vicende di tale incredibile assedio sono oggi ben documentate dai lavori di diversi storici. Basti pensare alle corpose opere Il Turco a Vienna di Franco Cardini e Il nemico alle porte di Andrew Wheatcroft oppure alle più agili L’ultima crociata di Arrigo Petacco e L’assedio di Vienna di John Stoye. Tutti concordano nel riconoscere in Marco d’Aviano il vero protagonista dell’evento. Questo monaco friulano, cresciuto ascoltando i racconti popolari sui Turchi tramandati nella sua terra (e ripresi poi da Pasolini nel dramma teatrale I Turcs tal Friül, I Turchi in Friuli) era noto per l’infuocata predicazione e le doti taumaturgiche che gli venivano attribuite. I suoi sermoni, pronunciati in un singolare idioma misto di latino, italiano e tedesco ed altresì caratterizzati da sconcertanti prodigi, attiravano folle sterminate di fedeli tanto che persino i luterani accorrevano ad ascoltarli, sfidando il divieto dei loro capi. La sua popolarità era tale che lo stesso imperatore Leopoldo I d’Asburgo lo aveva scelto per confessore e consigliere fidato. L’intensa preghiera dell’Atto di dolore che, in forma semplificata, si sarebbe poi diffusa nel mondo cattolico, era frutto della sua penna.

A questo straordinario religioso il colto ed ascetico Papa Innocenzo XI (il comasco Benedetto Odescalchi, 1611-1689, beatificato da Pio XII nel 1956) volle affidare una missione impossibile: sedare i dissidi che avvelenavano le relazioni tra le corti occidentali e costituire una Lega Santa capace di salvare l’Europa. Compito davvero arduo poiché ben si sapeva che i protestanti ungheresi preferivano il turbante ottomano alla corona austriaca e che a Parigi il Re Sole trescava alla grande con Istanbul e, con disarmante miopia politica, si fregava le mani pregustando la capitolazione di Vienna. Padre Marco tuttavia vestiva il saio di un ordine, quello cappuccino, che avrebbe dato alla Chiesa molti santi eccelsi e qualche celebre apostata ma che soprattutto aveva scritto un’indimenticabile pagina della propria storia nel giorno glorioso di Lepanto. Come un secolo prima i cappuccini erano stati l’intrepida forza spirituale presente sulle galee veneziane e spagnole durante quel mirabile scontro nel Mediterraneo così ora la Provvidenza destinava un altro membro dell’ordine alla nuova lotta in difesa della cristianità. Ad ogni modo, il miracolo avvenne sul serio.

Grazie al paziente impegno diplomatico svolto dal frate avianese, i rissosi alleati cristiani che avevano risposto all’accorato appello pontificio di crociata, espresso nella bolla Ad implorandam divinam operam contra Turcas, non solo misero da parte i reciproci antagonismi compattandosi in un unico fronte ma riconobbero anche al re polacco Jan Sobieski (1629-1696) l’effettivo comando della coalizione. Egli era del resto l’unico che poteva vantare un’autentica esperienza bellica contro le truppe ottomane, l’unico in grado di vincere il conflitto, anche se sapientemente coadiuvato da altri valorosi uomini d’arme come Carlo di Lorena ed Eugenio di Savoia.

La battaglia decisiva infuriò nella giornata del 12 settembre, spezzando un assedio durato più di due mesi e che aveva condotto Vienna allo stremo. Dalle pendici del Kahlenberg, il Monte Calvo che sovrasta la capitale austriaca, gli ussari alati di Polonia, spiegando al vento i vessilli della Vergine di Jasna Góra ed al grido di guerra «Jezusmary!», si lanciarono alla carica contro i ranghi nemici. Quanti militavano in questo eccezionale corpo di cavalleria portavano sul dorso della corazza delle grandi ali di legno ricoperte da piume di cigno, le quali battevano in sincronia durante il galoppo. In tal modo, quando partivano all’assalto, gli ussari di Sobieski potevano apparire come una valanga di terribili angeli apocalittici calati sulla terra. Lo scontro violentissimo provocò la rotta delle armate turche che si diedero ad una disastrosa ritirata. Per gli eserciti del Bosforo si trattò di una vera clades mentre il sovrano di Varsavia, parafrasando il motto cesareo, poteva scrivere nella missiva con cui volle annunciare a Roma il conseguito trionfo: «Venimus, vidimus et Deus vicit». L’impresa compiuta dal re venne accolta con un tripudio di gioia non solo in Italia ma nella stessa Polonia dove il famoso astronomo Johannes Hevelius dedicò al monarca la costellazione dello scudo, da poco scoperta.

Come avvenuto per Lepanto, Innocenzo XI attribuì la vittoria all’intercessione della Vergine. Era stata Lei la vera condottiera delle forze cristiane. La festa del Santissimo Nome di Maria, celebrata già a livello locale in alcune regioni nella domenica successiva alla Natività della Madre di Dio, venne dunque indissolubilmente legata alla salvezza di Vienna ed estesa dal pontefice a tutto il mondo cattolico. Fu così che in molte contrade d’Italia, soprattutto in Liguria e nei luoghi da sempre esposti alle razzie saracene, si diffuse la singolare iconografia che vedeva la Vergine levare la destra a fermare le cannonate nemiche mentre due guerrieri turchi sono incatenati ai suoi piedi ed un angelo mostra il cartiglio: «Al mio nome sia ascritta la vittoria!». Il carattere guerriero della ricorrenza si consolidò a tal punto nei secoli successivi tanto da colpire anche la sensibilità del Manzoni che, in uno dei suoi Inni Sacri, celebrò Maria scrivendo: «Salve, o degnata del secondo nome / O Rosa, o Stella ai periglianti scampo / Inclita come il sol, terribil come / Oste schierata in campo». E se, in tempi più recenti, Pio X volle fissare la festa al 12 settembre per mettere ancor meglio in risalto il successo cristiano, l’autorevole orientalista Bernard Lewis assicura che ancora oggi, nel mondo islamico, quella data è spesso percepita come un luttuoso giorno di tristezza per la disfatta patita.

All’alba di quel dies gloriae padre Marco aveva celebrato la messa al Kahlenberg, offrendo a Dio sé stesso per la salvezza della città poi, nel colmo della battaglia, tra il frastuono delle bombarde, il fumo grigio degli incendi, il sibilare delle frecce e l’infrangersi delle lame, lo si vide ritto sulla cima del monte innalzare al cielo il suo crocifisso proclamando: «Questa è la croce del Signore: fuggite schiere avversarie!». Una scena immortalata anche dall’indimenticabile Carlo Sgorlon nel romanzo Il taumaturgo e l’imperatore, dal regista Renzo Martinelli nella discussa pellicola 11 settembre 1683 nonché dalla bella statua eretta nei pressi del duomo di Aviano. Al suo tempo, tuttavia, l’eroico religioso non ricevette (né avrebbe accettato) alcun riconoscimento per l’impresa compiuta. Anche la beatificazione si sarebbe fatta molto attendere e, sebbene si dichiarassero suoi devoti personaggi illustri come San Leopoldo Mandić e il card. Albino Luciani, fu solo Giovanni Paolo II a concedergli l’aureola nel 2003. La felice conclusione del difficilissimo iter verso gli altari resta però merito del compianto Padre Venanzio Renier che di fatto dedicò l’intera esistenza alla causa.

Eppure, anche se inconsapevolmente, in molti rendono onore alla memoria del frate friulano ogni mattino. Stando infatti ad un curioso racconto popolare, una volta conclusosi lo scontro, i viennesi rinvennero nell’accampamento nemico una cospicua provvista di caffè turco. Qualcuno volle offrirne una bella tazza a Padre Marco che tuttavia, al primo sorso, lo trovò disgustoso. Per renderlo più gradevole ci versò quindi dentro tanto latte sino a quando la miscela non assunse il colore del suo saio. I presenti, scherzando, chiamarono la nuova bevanda “cappuccino”. Proprio allora giunse dal frate un pasticcere che, ispirandosi ai vessilli islamici, aveva realizzato un nuovo dolce, il croissant, cioè “luna crescente, mezzaluna”, destinato ad essere mangiato così come le armi cattoliche avevano metaforicamente fatto con il pericolo ottomano. È proprio il caso di dire che nel fare colazione si ricorda la salvezza dell’Europa.

 

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