Se nel 2010 al Pronto soccorso dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma arrivavano 150 pazienti con richiesta di consulenza psichiatrica, nel 2022 ne sono arrivati oltre 1850.
Il responsabile del reparto, Stefano Vicari, parla di una vera e propria “emergenza psichiatrica, dimenticata dalla politica”. Il dato è drammaticamente confermato dall’aumento vertiginoso dei disturbi mentali, che conducono al suicidio, considerata la seconda causa di morte tra 10 e 25 anni.
Quel che lascia assolutamente disorientati è che non c’è un vero trauma all’origine: spesso manca la causa scatenante.
Molti adolescenti ricoverati sostengono che vorrebbero rimanere lì per sempre. Questo non è un buon segno: i ragazzi in reparto si sentono al sicuro, ma quella non è la realtà, che è altra cosa, con la quale devono imparare a convivere.
Il ricovero non dura, infatti, più di cinque o sei giorni e i medici suggeriscono di non rimanere in contatto tra di loro, ma piuttosto di allargare le cerchia delle amicizie, perché il ritorno alla vita normale è complicato e parlarsi tra coetanei li fa sentire meno soli.
Le famiglie dei “normali” suggeriscono ai figli di stare lontani dai soggetti con disturbi psichici. Si accettano tutte le fragilità, eccetto quelle mentali! Nell’ambito di una necessaria rieducazione collettiva (che coinvolga anche i genitori) bisogna sottolineare il fatto che qualcuno possa rimanere indietro!
E il tentativo di suicidio degli adolescenti non è tanto sintomo di malattia mentale, quanto piuttosto la manifestazione di un disperato modo per non impazzire di dolore. È, in fondo, una sofferenza evolutiva.
Non bisogna negare il dolore, ma non vedere necessariamente una psicopatologia.
L’osservazione attenta ci fa rilevare il prevalere di un sentimento di vergogna e di inadeguatezza all’interno di modelli sociali, familiari, educativi che puntano sull’immagine e sulla precocizzazione, con bambini adultizzati fin dall’asilo, con profili personali sui social, ancorchè gestiti dai genitori.
L’idea dominante è che il proprio figlio debba aver successo, essere popolare, intelligente, molto bello, avere tanti follower e tanti amici: altrimenti i genitori si angosciano. Si vorrebbe un campione olimpico in ogni casa, ma i campioni olimpici sono pochi!
Oggi i ragazzi debbono “essere se stessi”, ma nel modo di qualcun altro: dei genitori, della scuola,di una società piena di contraddizioni. Il bambino arriva all’adolescenza “senza nucleo identitario” e la sparizione dalle scene diventa l’unica soluzione che trova la mente di fronte al dolore. Nonostante tutti gli impegni pomeridiani degli adolescenti, fino a diventare stressanti per loro e per i loro stessi genitori, non c’è di fatto alcuna esperienza “non presidiata” dagli adulti: è la manifestazione di una totale privazione di fiducia e di responsabilità.
Siamo di fronte ad un vero paradosso: gli adolescenti crescono avendo in mente il funzionamento affettivo della propria madre, del proprio padre, del proprio insegnante, molto di più di quanto madri, padri e insegnanti abbiano in mente il funzionamento affettivo dell’adolescente.
Ne sanno più i ragazzi degli adulti che il contrario: non era mai successo. La fragilità adulta rischia di farci incontrare adolescenti che non possono permettersi di dire realmente come stanno. Non basta più il consiglio dell’ascolto: bisogna far sentire ai ragazzi che possono dire come stanno davvero e non come gli adulti vorrebbero. L’intento comunicativo viene messo a tacere: si chiede ai ragazzi di non affrontare temi troppo angosciosi.
Prevale, troppo spesso, il sè e non la volontà di capire come sta realmente l’adolescente.