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Dopo l’epidemia, davvero tremenda, del 1656, la peste tornò ad imperversare, fra la Campania e la Terra di Bari, nel biennio 1690-91. Alcuni protagonisti del “risveglio oronziano” del XVII sec., come il vescovo Pappacoda o l’artista Giovanni Andrea Coppola, erano già passati a miglior vita.

 

 

Tuttavia, il culto era risorto dall’oblio. Fu allora che l’argentiere leccese Domenico Gigante, trovatosi a Napoli, decise di modellare uno splendido simulacro del protomartire appulo e di offrirlo alla città natale come ex-voto. L’opera, che raffigura un Oronzo mitrato e benedicente, con pastorale ed evangelario, giunse al monastero degli olivetani il 1° giugno 1691, quando il male ormai infuriava nell’entroterra barese. La sera 3 giugno, solennità di Pentecoste, venne condotto in cattedrale con un corteo imponente di oltre 1600 fedeli. Le Cronache Leccesi di Giuseppe Cino affrescano con toni estremamente vividi quanto avvenne in quell’occasione: il popolo piangeva commosso e, fra il chiarore delle torce, implorava l’intervento del santo per la propria salvezza. Le preghiere salite al cielo ottennero quanto sperato perchè, anche in questa seconda ondata di contagi che si abbattè sul Meridione italiano nel XVII sec., il Salento rimase pressoché immune dal morbo. Come ricordano lo storiografo Mario Cazzato e lo studioso Stefano de Carolis, l'artistico basamento della magnifica opera mostra infatti una scena in cui il santo scaccia dalle mura della città la peste, allegoricamente raffigurata come un’orrida vecchia (iconografia questa nota anche in ambito ostunese).

Vi è però un secondo singolare episodio di cui la statua, oggi custodita presso il Museo diocesano di Lecce, si rese protagonista. Stando sempre agli scritti del Cino, lo scultore Gigante ripeté per ben tre volte la fusione del busto ma il viso del martire presentava sempre un’imperfezione: una sorta di piccola cicatrice fra le sopracciglia. Scrisse allora al vescovo Michele Pignatelli, chiedendo consiglio sullo strano ripetersi dell’imprevisto. Il santo sarebbe però apparso in sogno ad un religioso, rivelando come quel segno gli appartenesse: se l’era procurato da ragazzo, in seguito ad una caduta!

Ovviamente, ora siamo tentati di sorridere dinanzi ad un tale racconto. Ma, a dire il vero, come tutti i curiosi aspetti della religiosità popolare, esso svela retroscena molto più profondi. Dal punto di vista storico, la cosa è senza dubbio una manifestazione della ricerca delle cosiddette “vere immagini”, che tanto caratterizzò l’arte della Controriforma. L’immagine sacra non è qualcosa di fine a sé stesso ma esprime una presenza viva, concreta del santo raffigurato tra il popolo che lo venera come patrono. Per tal motivo l’iconografia doveva essere quanto più vicina possibile al soggetto reale. Attraverso l’immagine, i fedeli possono entrare in contatto immediato con il santo, pregarlo, parlargli con sincerità, confidarsi, sentirlo vicinissimo, familiare, sfondando di fatto il muro di carta dei secoli trascorsi. Erano questi i sentimenti dei nostri padri, dei nostri antenati. Ed oggi? Ne siamo certi: Sant’Oronzo è tra noi. Ci conosce tutti, ad uno ad uno, personalmente. Conosce le nostre sofferenze ed i nostri sacrifici. Ed altro non vorrebbe fare che condurci tutti ad adorare la croce di Cristo ed a mostrarci il sepolcro vuoto, per cui lui ha sparso il proprio sangue. E, in fondo, lo ha fatto per tutti noi, perché i suoi figli potessero ricevere il tesoro più grande, che è la luce della fede cristiana. Lui ci è vicino, la sua mano benefica è pronta a stendersi ancora sulle nostre case. Sta a noi invocarlo con fiducia, crescere nella fede, scegliere il bene, perseverare nella conversione, vivere gli eventi in maniera autenticamente cristiana, come cercarono di fare le generazioni che ci hanno preceduto.

 

 

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