Se qualcuno ha mai pensato che gli uomini e le donne Rom non conoscano il valore e il senso della gratitudine si sbagliava.
O perlomeno, l’ingratitudine non abita tra i Rom leccesi. Spesso vengono, a torto o a ragione, puntati come un popolo retrogrado, che vive di espedienti, restio al dialogo, lontano anni luce dalla cultura occidentale ed europea. Ma sulla gratitudine, grande prova di civiltà, è difficile batterli.
Come annotava Antonio Cinieri nel 2014 sul blog “Migrazioni”, “Le prime famiglie d’origine rom giungono sul territorio salentino nei primi anni Ottanta, a seguito della crisi dell’ex- Jugoslavia, dopo la morte di Tito. Inizialmente si tratta di una sola famiglia, composta da una ventina di persone, a cui, nel corso degli anni, si aggiungono altri gruppi familiari. Fino ai primi anni Novanta arrivano a Lecce principalmente cittadini rom provenienti dal Montenegro (in particolare dalla capitale Podgorica). Con la crisi del Kosovo (tra il 1996 e il 1999) al gruppo montenegrino si aggiungono altre famiglie rom di origine kosovara”.
“Questo gruppo di cittadini rom - spiega Cinieri - giunge in Italia sulla scia dei più generali flussi migratori, e non per ‘innato istinto nomade’. Nel paese di origine vivevano in abitazioni stabili, inserite all’interno del tessuto urbano e sociale, sebbene periferico, delle loro città. Nonostante ciò, quando le Istituzioni locali si accorgono della presenza dei rom sul territorio decidono, non senza contraddizioni, di riproporre a Lecce la soluzione del campo sosta, la stessa ‘ricetta’ fallimentare sperimentata in altre regioni italiane: dapprima si individua l’area dell’ex-campeggio di Solicara (1995), poi, dal 1998, l’area di Masseria Panareo, situata in aperta campagna, senza alcun collegamento pubblico, lungo la strada provinciale Lecce-Campi Salentina”.
Oggi nel campo di Panareo vivono circa ottanta famiglie di etnia Rom. Quasi ghettizzate. Non è difficile incontrarli in città a piccoli gruppi, soprattutto donne, che si recano alla ricerca di aiuti e di sostegno economico. Spesso davanti alle chiese a cadenza domenicale per chiedere l’elemosina.
C’è però anche una carità silenziosa che si muove tutto l’anno verso di loro. Superando “antichi e mai sopiti pregiudizi (i rom ‘sono nomadi’, ‘sono sporchi’, ‘non vogliono lavorare’…)” che la ghettizzazione dei campi-sosta probabilmente continua ancora oggi ad alimentare. “I campi - conclude Cinieri - non solo non offrono alcuna risorsa, ma spesso escludono chi li abita da qualsiasi possibilità di interagire positivamente con il resto del tessuto sociale proprio a causa della loro dimensione stigmatizzante e marginalizzante”.
Ma per la carità cristiana non esistono distanze, separazioni e tantomeno ghettizzazioni. Tutto l’anno il “braccio solidale” della carità leccese li pensa e li aiuta. E mons. Seccia lo sa e li accoglie e li benedice.
Panettoni in ogni famiglia in questo Natale. E poi pane e cibo sempre, grazie soprattutto ai volontari Caritas della mensa di Santa Rosa, generosi e anche coraggiosi in questo tempo di pandemia.
E così, giorni fa, quando Piero Della Ducata, uno dei volontari, ha consegnato loro, da parte dell’arcivescovo, il dolce tipico del Natale, uno a famiglia, loro hanno deciso di scrivere una lettera al pastore e a don Damiano Madaro, il parroco di Santa Rosa. Per ringraziare.
L’italiano lascia a desiderare. E parecchio pure. Ma il senso e il peso del pensiero espressi non lasciano spazio a dubbi e incomprensione. Chiaro e sintetico: “graziamo” è la parola nuova e inconsueta. Perfetta, esatta, illuminata, chiara e netta.
“Speriamo che questa lettera ti trovi bene - scrivono i fratelli Rom”. Ti graziamo - ecco il vocabolo delicato e trasparente: ricorre ben quattro volte in poche righe - per tua beneficenza. Graziamo che stai aiutando con il cibo i nostri bambini a crescere”. “Ti graziamo di cuore e Dio benedica chi pensa per noi”. Infine, a chiusura, le firme di Iso, Melissa, Daibi, Jasmina, Finansa, Rapi… E poi un lungo elenco di altri nomi poco decifrabili ad occhio nudo.
Insomma, una bella lezione di civiltà, uno schiaffo al pregiudizio, un bell’auspicio per l’anno nuovo.