A grande richiesta dei lettori di Portalecce, anche se notevole per lunghezza, pubblichiamo il testo integrale dell’intervento che Alfredo Mantovano, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, ha offerto nella chiesa di Sant’Irene, sabato scorso nel corso dell’incontro dal titolo “San Giovanni Paolo II e le attuali sfide della Chiesa in Europa” nell’ambito del trentennale della visita del Papa a Lecce (1994-2024).
- “Da questo punto privilegiato di osservazione, che è la terra di Puglia, rivolgo ora il mio pensiero cordiale alle nazioni che si trovano sull’altra sponda dell’Adriatico. Penso all’amata Albania, giovane nella sua ritrovata democrazia; alla Grecia, faro di civiltà e sorella nella fede; alle travagliate regioni dei Balcani, e in special modo a Sarajevo (…). A tutti vorrei rinnovare l’annuncio che costituisce il centro del messaggio evangelico: Cristo è la nostra pace”. Con queste parole, la sera del 17 settembre 1994, in Piazza Sant’Oronzo Giovanni Paolo II concludeva il primo dei discorsi che avrebbe pronunciato a Lecce.
Lo faceva dopo aver raccolto il benvenuto dell’allora ministro Adriana Poli Bortone, che oggi da sindaco ne ricorda la visita. E che ringrazio, unitamente all’arcivescovo, per l’invito a questa celebrazione. Saluto il card. Stanisław Dziwisz, che quella sera, come per l’intero pontificato, fu a fianco del Santo Padre.
In quel momento la guerra era dentro i confini dell’Europa. Sarajevo, espressamente menzionata dal Papa, era sotto assedio da due anni e mezzo, e lo sarebbe rimasta per un totale di 4 anni, perdendo un terzo della sua popolazione.
Anche oggi la guerra è dentro i confini europei; anche oggi, e da due anni e mezzo, una Nazione europea, l’Ucraina, è sotto assedio e fra morti e profughi ha perduto una parte significativa della popolazione. E in un’altra terra, che pure è chiamata ‘Santa’, un’altra guerra è in corso, con atrocità e devastazioni crescenti: non è dentro l’Europa, ma è vicina a noi, geograficamente e spiritualmente, e ci chiama in causa.
Il nostro incontro di stasera ha senso se non si riduce a un mero ricordo, ma cerca di cogliere quanto il Magistero di San Giovanni Paolo II sia attuale per l’Europa di oggi.
Non ho la pretesa di dare seguito alle riflessioni del cardinale Dziwisz. Mi pongo nell’ottica laica di chi ha responsabilità di governo, e per questo non oso parlare del rapporto fra Chiesa ed Europa. Provo ad accennare alle sfide civili dell’Europa di oggi, che sono strettamente correlate a quelle religiose, e quindi ci interpellano come cristiani. Non vi proporrò delle riflessioni, bensì delle cartoline: immagini di luoghi che in Europa significano qualcosa; o di luoghi che, pur non trovandosi in Europa, in questo momento sull’Europa incidono.
- La prima cartolina è dall’Irlanda. Drogheda è una graziosa città a nord di Dublino; Giovanni Paolo II vi è andato per il suo terzo viaggio apostolico, 45 anni fa. A pochi chilometri da Drogheda, in campagna, sorge Newgrange, un enorme monumento sepolcrale a forma di tronco di cono, con un diametro di circa 100 metri e un’altezza di 9 metri. È stato realizzato fra il 3.000 e il 2.700 a. C., con materiale condotto sul posto da centinaia di chilometri di distanza. Un passaggio lungo poco meno di 20 metri conduce alla camera sepolcrale, nella quale si aprono tre loculi disposti a croce rispetto al passaggio. L’architetto che ha progettato Newgrange è stato così preciso che da circa 5.000 anni la luce del sole penetra nella camera per qualche minuto una sola volta all’anno, alle nove del mattino del 21 dicembre, il giorno del solstizio d’inverno.
Perché ne parlo all’inizio? Perché, molto prima che i Cristiani si diffondessero sul suolo europeo, l’Europa attendeva, in modo implicito, ma non per questo meno reale, il sorgere del sole vero, quello che è venuto al mondo in coincidenza del solstizio d’inverno di 2024 anni or sono.
Se dalla periferia ci spostiamo al centro dell’Europa precristiana e ci avviciniamo al più importante dei solstizi d’inverno, quello dal quale calcoliamo gli anni, è difficile dimenticare l’Ara Coeli sul Campidoglio, che secondo la tradizione Augusto realizzò in onore del figlio di Dio (è la seconda cartolina che mi permetto di proporvi). E non è un caso se i trattati dai quali nel 1957 hanno tratto vita le istituzioni europee siano stati firmati a pochi metri di distanza da essa.
- Che cosa voglio dire? Voglio dire che non c’è angolo d’Europa che non sia stato illuminato dalla luce che in un posto così periferico come Drogheda veniva evocata per indicare la speranza nella vita oltre la morte. Non c’è opera letteraria o artistica europea che possa prescinderne, anche solo per provare a spegnarla. Lo attesta la stessa bandiera dell’Unione Europea, con le dodici stelle su fondo azzurro, che rinvia direttamente alla Madre del figlio di Dio, al di là della consapevolezza del suo significato da parte di chi l’ha adottata.
Attenzione, non rivendico primazie confessionali. È sempre attuale la magistrale lezione di Papa Benedetto XVI a Ratisbona, quando - riprendendo il dialogo di Manuele Paleologo col saggio sufi - sottolineava come la fede non si impone con la spada. Quello che vorrei dire è un’altra cosa: a prescindere dalla religione di riferimento, e perfino per un ateo, è certo che senza la radice cristiana, che ha inverato e vivificato le radici greca e romana, l’Europa sarebbe rimasta soltanto la penisola occidentale del grande continente asiatico: perché tale è geograficamente.
Se l’Europa è qualificata come continente è esclusivamente per ragioni storiche e culturali: è perché sulle terre che avevano visto prima espandersi e poi rovinare gli imperi greco e romano hanno arato e seminato in tanti, da San Benedetto in poi, i quali hanno fatto crescere i contadi e le città, e in esse le università, i luoghi di cura, le cattedrali, e poi le strutture politiche e gli ordinamenti giuridici.
- Affrontare le sfide dell’Europa di oggi è concretamente possibile se si vince un paradosso, che ha preso piede da decenni: quello di istituzioni europee che puntano a rendere tutto eguale, da Stoccolma a La Valletta, da Lisbona a Bucarest, dalle dimensioni degli ortaggi alle realizzazioni del PNRR, ma poi rifiutano il solo elemento che identifica e unisce l’Europa. E se oggi la guerra è nel cuore dell’Europa è anche per il rifiuto delle sue radici cristiane, che non a caso accomunano la fede in Russia e in Ucraina.
Nelle istituzioni UE si irrigidiscono elementi di dettaglio e si rende fluido quello che invece esige compattezza e capacità di decisione: ogni Nazione europea è tenuta a obbedire alle prescrizioni più minute, ma va per conto proprio di fronte alle grandi crisi in atto.
Non parlo solo dell’Ucraina, o di Gaza, o del Libano: cui comunque Giovanni Paolo II invitava proprio noi salentini a porre particolare attenzione. Nell’Angelus a conclusione della Santa Messa allo stadio di Via del Mare Egli sottolineò come proprio nella nostra terra “l’Oriente e l’Occidente si sono scambiati preziosi doni di fede e di civiltà”. Parlo di quello che accade in un continente come l’Africa, diventato centrale anche per l’Europa. Provo a spiegarmi, qui non con cartoline ma con la carta geografica, limitandomi all’area del Mar Rosso.
Poco meno di due anni fa:
- stava per diventare operativo l’accordo di cessazione delle ostilità tra il Governo federale etiope e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray;
- il Sudan aveva appena terminato un piano per la transizione dalla giunta militare a un governo civile;
- il Presidente della Somalia, rieletto democraticamente, stava orientando l’azione politica verso la lotta al terrorismo jhiadista di Al-Shabaab;
- vi erano trattative per intese sia nello Yemen, tra gli Houthi e l’Arabia Saudita, sia tra Arabia Saudita e Israele, nel solco degli Accordi di Abramo.
Oggi, a distanza di meno di due anni:
- il Sudan è in preda a una guerra civile esplosa nell’aprile 2023, con un territorio diviso in due e con una situazione umanitaria catastrofica, circa 25 milioni di persone malnutrite, 8 milioni di sfollati interni, quasi 2 milioni fuggiti nei territori confinanti di Sud Sudan, Ciad ed Egitto. Il rischio di massicci flussi migratori verso l’Europa è più che che concreto;
- le relazioni tra Etiopia ed Eritrea si sono fortemente deteriorate, col tentativo della seconda di creare una propria enclave nel territorio etiope;
- è esplosa una nuova crisi nei rapporti fra Etiopia e Somalia;
- dalla fine del 2023 si sono moltiplicati gli attacchi Houthi contro le navi che attraversano il mar Rosso e il golfo di Aden;
- è stato sospeso ogni percorso di accordo fra Israele e Arabia Saudita.
- Che c’entra questo con l’Europa?
C’entra, perché fra poco, se non cambia nulla, milioni di profughi sudanesi saranno fra noi. E con loro milioni di siriani, in fuga dal Libano. E centinaia di migliaia di libanesi.
C’entra, perché gli attacchi Houthi hanno fatto emergere il c.d. asse della resistenza che, sotto l’egida dell’Iran, lega in azioni paraterroristiche - come abbiamo visto - Hamas, Hezbollah e gli stessi Houthi. Vi è il pericolo che questi attacchi si estendano al territorio europeo, ma intanto provocano danni enormi alle nostre economie.
C’entra, perché puoi pensare non dico di risolvere, ma quanto meno di affrontare con ipotesi plausibili l’insieme di queste crisi, se hai al tempo stesso riferimenti saldi ed elasticità operativa. Se inverti il rapporto, se cioè ti ingessi sul particolare, pretendi di incasellarti a tutti i costi nella tua procedura burocratica e ideologica, e poi perdi di vista i fondamentali, ti spieghi perché, con rare eccezioni, l’Europa di oggi è così incapace di dare risposte a un quadro geo politico che cambia con tanta rapidità.
Come Italia abbiamo posto la questione africana al centro dei lavori dei Consigli UE e del G7, di cui quest’anno l’Italia ha la presidenza. Proprio il G7 di Borgo Egnazia ha attestato l’importanza dell’avvio da parte dell’Italia del “Piano Mattei per l’Africa”.
- L’Italia non arriva certamente per prima in Africa. Ma costituisce una eccezione il modo in cui, fra mille difficoltà, affrontando mille ostacoli, con mille incertezze, essa ha proposto e sta seguendo l’avvio del Piano. È una eccezione quanto alla modalità di interlocuzione con le singole Nazioni africane. È una eccezione certamente rispetto a come in questi anni Russia e Cina intervengono in Africa: la Russia con contingenti in armi, aprendo nuove basi militari, appoggiando rivolgimenti violenti, tutelando l’estrazione delle materie prime nelle aree a maggiore rischio; la Cina con la sua finora inarrestata espansione infrastrutturale, commerciale e tecnologica.
Ma il modo italiano è differente anche rispetto ad altre Nazioni europee, che fino a un recente passato hanno utilizzato - e in parte ancora utilizzano - le incredibili ricchezze dell’Africa, con scarso ritorno per le popolazioni locali: adesso ne pagano il prezzo, essendo costrette a ridimensionare la loro presenza e a ritirarsi.
Il Piano Mattei risponde a una logica differente: quella di un approccio paritario, che distingue fra le Nazioni che mettono a disposizione le risorse, e le Nazioni destinatarie delle risorse medesime. Ma poi identifica i progetti di sviluppo non decidendo a Roma o a Bruxelles che cosa è utile per la Mauritania o per la Costa d’Avorio, bensì concordandolo con loro sulla base delle esigenze prospettate.
C’è chi ha criticato il Piano perché non sarebbe preciso nei dettagli. Il Piano Mattei non è un diktat: è un orizzonte entro il quale definire ogni singolo passo sulla base di un confronto paritario con gli interlocutori africani, rendendo sempre stretti i reciproci legami di fiducia e di collaborazione. Nulla è imposto dall’alto.
A chi dice che pensiamo di conferire risorse a Paesi di origine o di transito dei migranti, quasi fosse un corrispettivo perché loro controllino le partenze, rispondo che questa era l’impostazione dell’Unione europea nei confronti degli Stati europei di approdo prima che il governo italiano - quello in carica - la ribaltasse: la formula che noi abbiamo contestato era denaro in cambio del trattenimento dei migranti.
La dinamica del Piano Mattei è diversa: favorendo lo sviluppo negli Stati di origine, si creano le condizioni per non emigrare; curando la formazione di chi, comunque, intende lasciare il proprio Paese, ci si assicura già a monte, attraverso flussi migratori regolari, un percorso di integrazione anzitutto lavorativa.
È un approccio che rispetta non soltanto i popoli africani e i loro governanti, ma anche le singole persone. Dobbiamo stroncare la prospettiva che il modo per arrivare in Italia e in Europa sia quello di affidare il proprio denaro e la propria vita ai trafficanti, e di affrontare viaggi disperati.
- È il modo italiano, e lavoriamo perché diventi il modo UE. Per dare un’idea della concretezza dei progetti, nella cornice del Piano Mattei in questi giorni sta partendo in Algeria – con investimenti di Bonifiche Ferraresi per 420 milioni di Euro - la semina di cereali e legumi destinati al mercato locale, per uso esclusivamente alimentare (quindi non biocarburanti), su un territorio inizialmente arido di 36.000 ettari: darà lavoro a oltre 6.000 persone, di cui 1.500 a tempo indeterminato, tutti algerini.
Analoghe iniziative sono in corso in Libia, in Cirenaica, dove le eccellenze aziendali e accademiche italiane permetteranno uno sviluppo agricolo su una superficie di 5.000 ettari, che creerà 1.500 posti di lavoro, locali, e proseguirà nel settore dell’allevamento. I primi raccolti si avranno tra gennaio e febbraio, cioè fra poche settimane. Nel settore agricolo iniziative simili si aggiungeranno nel 2025 in altre cinque/sei altre nazioni.
Non si tratta soltanto del settore alimentare. Abbiamo siglato con Egitto e Libia accordi nel campo dell’estrazione e della lavorazione delle materie prime critiche: grazie a questi accordi contiamo su approvvigionamenti di fattori produttivi critici per le transizioni digitale ed energetica. I partner africani avranno in cambio accesso al know-how ingegneristico e imprenditoriale italiano. Sulla stessa linea si collocano gli accordi con la Tunisia, che porteranno alla realizzazione in loco di un hub per l’intelligenza artificiale.
- Concludo con un’ultima cartolina, che ci riporta a Roma. E si ricollega a uno di quei romanzi che non dovremmo stancarci di rileggere coi nostri figli o coi nostri nipoti: si tratta di Quo vadis?, di Henryk Sienkiewicz, pure lui polacco, per quest’opera premio Nobel per la letteratura nel 1905. La storia è conosciuta: a Roma infuria la persecuzione di Nerone, e i Cristiani convincono Pietro ad allontanarsi dall’Urbe, perché altrimenti sarebbe stato ucciso. Era una preoccupazione fondata, era più di un rischio.
Pietro esce da Roma e inizia a percorrere la Via Appia e, nel luogo dal quale adesso parte la strada che conduce alle catacombe di San Callisto, incrocia un Uomo che invece si dirige verso Roma: un Uomo bello, affascinante; non lo riconosce subito, anche se il viandante ha una immagine familiare. Gli domanda: Quo vadis, Domine? La risposta svela a Pietro al tempo stesso chi è quell’Uomo e qual è il destino dell’Apostolo: Eo Romam, iterum crucifigi (vado a Roma, per essere crocifisso nuovamente). Pietro comprende e torna sui suoi passi.
L’incontro, ripreso nel romanzo, deriva da una antichissima tradizione popolare. In quel sito oggi sorge la piccola chiesa del "Domine quo vadis": fu visitata nel 1983 da Giovanni Paolo II, che definì quel luogo di "speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa". Perché di "speciale importanza”? Perché segna l’indissolubile originario legame fra Roma e la fede cristiana, e quindi fra l’Italia che ha Roma al centro, e il cristianesimo.
Non è un legame solo religioso: è un legame storico e culturale, che ha impresso nella nostra Nazione un sigillo materiale. Il legame fra Roma e l’Italia si è dilatato in Europa e nel mondo: i caratteri ambientali, visivi e sonori tipici dell’Europa, che si ritrovano anche oltre gli Oceani, sono partiti da Roma e, percorrendo le vie consolari, hanno raggiunto ogni angolo dell’Europa e del mondo. Anche i caratteri sonori, a sottolineare quanto questa impronta è penetrata: pensiamo solo al suono delle campane, che noi diamo per scontato, ma che scontato non è, in tante parti del mondo.
Quel sigillo ha lasciato il segno nella pietra, nel senso più concreto del termine: la piccola chiesa è stata edificata attorno all’impronta dei piedi che, sempre secondo la tradizione, Cristo ha impresso sul selciato della Via Appia. Luogo di "speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa": nel momento in cui Pietro, pietra angolare su cui viene edificata la Chiesa, viene unito a Roma, perfino le pietre di Roma ne diventano testimoni per i millenni che seguiranno.
- Vi è un ultimo quesito che mi permetto di porre, ricollegandomi alla prima cartolina, dalla quale sono partito. In questo lavoro di ripartenza e di ripensamento, quale ruolo può recitare quel che resta del popolo cristiano, dal quale in teoria ci si attenderebbe una postazione in prima fila? Fra il sostegno attivo alle ong che concorrono ad alimentare il traffico dei migranti e l’abbandono culturale dei presidi naturali, vi è ancora spazio per un contributo di pensiero e di testimonianza? O dobbiamo rassegnarci, quasi senza speranza, al deserto di tante nostre chiese, che sembra corrispondere a una saracinesca abbassata - ‘chiuso per cessazione di attività’ - perché non si ha più nulla da dire e da fare?
Al Meeting di Rimini dello scorso anno vi era una bella mostra su Charles Péguy. Di Péguy si ricordano tanti passaggi acuti; ne riprendo uno: “la disperazione - egli dice - è il peccato più grave, perché è il rifiuto a trarre profitto dalle infecondità dell’insuccesso”. Giuda si perde perché non ha più speranza, più ancora che per aver tradito. Il peccato più grave è, dopo aver scambiato la luce con i lumi ed esserne stati pesantemente delusi, immaginare che la luce vera, quella preconizzata a Newgrange e accesa da duemila anni in ogni angolo d’Europa, sia spenta definitivamente.
Seguendo Péguy, partiamo avvantaggiati: come cattolici siamo specializzati in insuccessi. D’altronde, quale maggiore apparente insuccesso della Croce!
Ma c’è stato un grande europeo - colui in nome del quale siamo riuniti qui questa sera -, che pareva anche lui avviato a collezionare insuccessi: e che invece è stato straordinariamente capace di renderli fecondi. Al momento del crollo dei Muri, da lui tenacemente perseguito, di fronte a chi evocava ingenuamente ‘la fine della storia’, Karol Wojtyla esortò tutti, fedeli e non, a vincere il ‘fatalismo della storia’.
Chi ha responsabilità politiche è chiamato a convincersi che c’è un solo modo per vincere la disperazione e il fatalismo della storia. Ed è ‘fare la storia’.
È, col proprio bagaglio di insuccessi, e quindi con la consapevolezza dei limiti della propria funzione, contribuire a correggere gli orrori che l’ideologia semina sul percorso della storia.
Nei primi anni di Pontificato la critica più frequente che i media progressisti, anche infraecclesiali, rivolgevano a Papa Wojtyla era di non essere al passo coi tempi. A loro modo avevano ragione: dopo appena un decennio di guida della Chiesa sono stati i tempi a porsi al passo di Giovanni Paolo II.
È quello che, con i limiti di ciascuno e con l’aiuto di Dio, nell’Europa di oggi viene chiesto a ciascuno di noi.
*Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio