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Nel corso del suo novantacinquesimo anno, è tornato alla casa del Padre. Ha chiuso gli occhi alle realtà della terra, don Franco Lupo, insigne predicatore delle realtà del Cielo.

 

 

Lo ricorda con affetto la parrocchia di San Guido, periferia della città di Lecce, dove il giovanissimo don Franco annunciava il Vangelo tra le strade polverose e in mezzo a una gioventù spesso difficile e ribelle. Era infatti, lu prete te la strata de Maglie. Lo ama Squinzano, dove pur essendo stato per poco tempo, sempre ritornava per predicare ritiri e declamare le sue splendide poesie. Soprattutto, però, lo piange il centro storico della città, dove ha passato la sua intera esistenza, divenendo padre e amico di tutti. Il suo pulpito preferito, che attirava fedeli da ogni parte della città, era quello dei Teatini, dove è stato padre spirituale della confraternita per circa 40 anni, ma continuamente veniva chiamato in tutta la diocesi a predicare nelle principali feste e solennità. E don Franco, fin quando ha potuto, anche curvo e dolente, ha sempre accolto ogni invito, sebbene la sua umiltà ritenesse fuori luogo gli applausi e gli onori che i sacerdoti e il popolo giustamente gli tributavano.

Don Franco amava ripetere che era un prete di strada, sempre sollecito ai bisogni della sua gente, di cui conosceva pregi e difetti, come pochi altri. Pur essendo un sacerdote colto, amante del latino, ricco di profondità spirituale, non faceva pesare a nessuno la sua vivida intelligenza, ma in ogni suo sorriso, gesto e parola traspariva l’uomo di Dio, capace di trasmettere la freschezza del Vangelo con l’affabilità e la spontaneità dei semplici.

Non c’è a Lecce alcun sacerdote, giovane o anziano, che abbia conosciuto don Franco e non ne abbia parlato con ammirazione e sincero affetto.

Don Franco sarà sempre ricordato da tutti coloro che lo hanno conosciuto perché era un prete buono, ma anche i posteri ne tramanderanno la memoria, perché era il poeta leccese di Dio. Lecce, infatti, perde uno dei più grandi scrittori e poeti dialettali. Il suo romanzo Gente bbona raccontava la Lecce di un tempo, dipingeva personaggi che ne hanno segnato la storia, rappresentava la fede viva dei semplici, la conversione dei peccatori e la bontà di cuore dei suoi abitanti. Anche la raccolta poetica Lecce mia descriveva l’amore di don Franco per la sua Lecce, per le sue chiese, i suoi monumenti, le sue bande, le sue feste e, nel ricordo degli antichi mestieri, rivivono ancora oggi tradizioni, persone ed episodi del passato di cui don Franco ha voluto perpetuarne la memoria. La sua poesia era anche denuncia per lo stato di abbandono in cui versava il nostro territorio, per la corruzione dei potenti e per le forzate emigrazioni. Tutto questo, però, don Franco lo evidenziava con il suo stile sempre garbato e mai polemico, che aveva appreso dagli umili e che aveva attinto dal Vangelo.

Don Franco era, infatti, un autentico leccese. Amava tutto della sua città. Ne seguiva la politica, ne condivideva le ansie e i dolori, andando a toccare le piaghe più profonde della sua gente come testimoniato dal suo servizio agli ammalati e dal ministero svolto presso i carcerati. Così scriveva in Lecce mia

O Lecce mia, stasira de la festa,

dduma le lucernedde su lle porte,

rrecorda a ci rimane, a ci nu resta,

ca tie sii ncora bedda, ncora forte.

Il suo capolavoro è stato la raccolta Cose de Ddiu, Un po’ di Bibbia in dialetto leccese, in cui il sacerdote poeta ha raccontato e dipinto in versi le più belle pagine della Scrittura, dalla Genesi all’Apocalisse. Questa raccolta costituisce un esempio poetico di rara bellezza e una pedagogia catechetica rivolta al popolo leccese, di cui don Franco era in grado di narrare desideri e speranze, delusioni e dolori, ponendoli sotto lo sguardo amorevole e tenero del Signore.

Ora don Franco lascia tutto questo patrimonio culturale e spirituale alla sua Lecce e raggiunge la patria eterna del Cielo dove canta per sempre le lodi del Signore. Si è spento dopo aver vissuto con noi l’ultimo suo Natale. Proprio a Natale morì la sua amata madre e ancora ci sussurra, per l’ultima volta, il suo affetto di pastore e sacerdote dinanzi a quella grotta:

O mmamminieddru, tie te sai rranciare

scarfanni tutti de l’amore tou,

mparani ntorna comu s’a preare,

dinne a ci è riccu ca nu tuttu è sou…

Stiendi la manicedda, mmamminieddu,

nnanzi la rutta tutti nui mentimu,

lu tristu, lu lardusu e lu perieddu…

sta chiangi ncora e ncora te sentimu.

Desidero, infine, concludere con un’altra poesia dell’amato sacerdote leccese, in cui si rivela tutta la sua fede nel Cielo. Mentre tutta la diocesi lo piange, infatti, è bene elevare per lui una fervida preghiera e ricordare che: Le pene de stu mundu ca ha mmurire/ am paraisu ccogghienu la croria/ ‘gne ccosa de sta terra a sci ‘ffinire/ quandu l’eternità gnutte la storia.

 

Foto di Arturo Caprioli

 

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