Emozionante e provocatoria la testimonianza rilasciata ieri pomeriggio dalla dott. Benedetta Marullo durante l’adorazione eucaristica guidata da don Gianni Mattia andata in onda anche su Portalecce dalla cappella dell’ospedale “V. Fazzi” di Lecce.
Un momento di preghiera di ringraziamento per i curanti dal tema “Invece un samaritano”, organizzato dall’Ufficio Cei per la pastorale della salute e trasmesso sul proprio canale Youtube in diretta da quattro cappelle ospedaliere italiane, tra le quali anche quella di Lecce. Dal “Fazzi”, la dott. Benedetta Marullo ha raccontato la sua personale esperienza umana e professionale (RIVEDI ) da rianimatore ai tempi del Covid. Di seguito il testo integrale della sua testimonianza.
Buon pomeriggio a tutti. Mi chiamo Benedetta Marullo e di mestiere sono anestesista rianimatore. In questi mesi tutti hanno imparato molte cose sul mio lavoro, di solito svolto nell’ombra. Difficile invece raccontare dall’interno quello che abbiamo vissuto e viviamo.
Da sempre siamo quelle figure abituate a scontrarsi con la paura, il dolore, la rassegnazione, la speranza. Abituati a lavorare sul filo del rasoio tra la vita e la morte. Lo facciamo di mestiere e per quanto sia difficile negli anni impariamo anche a muoverci delicatamente in quel lembo strettissimo di chi prova a gestire situazioni di limite nel tentativo di farlo nel migliore dei modi cercando sempre di restare lucidi, di non essere travolti da emozioni improvvise ed impetuose generate da eventi spesso drammatici.
Viviamo da sempre dentro un vestito che cerchiamo di togliere e una volta varcata la soglia di casa, per poter sopravvivere.
Perché tutto quello che vive Benedetta il rianimatore non sempre può essere condiviso in famiglia, perché ci sono guardi ed emozioni che ti rimangono appiccicati addosso e piano piano diventano parte integrante del tuo essere.
Ebbene il Covid ha fatto sì che quel vestito tolto a fatica la sera, diventasse inesorabilmente pelle. Immediatamente.
Il Covid non è solo una malattia. Il Covid è impotenza, solitudine, paura. Sono lacrime scivolate sulle guance degli operatori e dei familiari di fronte all’ennesima vita persa e per una vittoria inaspettata. Questa malattia nessuno sa realmente che cos’è. Stiamo imparando lentamente a conoscerla, ma solo in parte, come se pretendessimo di conoscere il mondo intero semplicemente dallo squarcio di cielo che si può intravedere da un pertugio. Il Covid ha cambiato tutto e tutti, senza distinzioni, peggio di una livella.
Ed essere medici rianimatori è difficilissimo.
Il timore di poter essere inconsapevole veicolo per i propri cari rimane una costante e le emozioni vissute molteplici. Durante la seconda ondata un pomeriggio ho partecipato a d una videochiamata tra un paziente e la sua famiglia di passaggio fugacemente i nipoti del mio paziente hanno fatto capolino nel mondo della rianimazione e con la semplicità e l’ingenuità di due bambini hanno mandato il loro messaggio di speranza.
Siamo con te, ti aspettiamo. Il mattino dopo quel filo si era spezzato. Con il cuore in gola e le lacrime che mi rigavano il viso mi ritrovavo a parlare con quella figlia che il giorno prima tentava di infondere coraggio e poche ore dopo raccoglievo il suo dolore. Ma le sue parole mi hanno salvata: “Dottoressa, non pianga, la ringrazio di tutto. Lei mi ha fatto il regalo più bello. Ha permesso a mio padre di morire sereno con negli occhi e nel cuore il calore e l’affetto dei suoi nipoti. Grazie”.
Il Covid è anche questo. Il mondo si inginocchia inesorabilmente e noi ci riscopriamo fratelli. Ho imparato ad apprezzare il valore di un sorriso rubato al tempo, da tutti quei pazienti che si sforzano di tranquillizzare loro i parenti, a casa. Ho imparato ad ascoltare il valore e l’attesa generati da una promessa, tornerà? Come sta? Lo abbracci per me. Ho imparato che la paura ed il dolore sono importanti perché nel dolore siamo persone migliori. Ho imparato che lavorare in squadra è davvero una vittoria perché questa malattia ci ha spaventati, ci ha distrutto sia psicologicamente che fisicamente, ci ha privato di tutto, tranne di una cosa: la speranza.
Speranza di poter ricominciare ogni mattina imparando dal passato, di poter apprezzare anche gli attimi più fugaci. Ogni sera da mesi torno a casa, puzzolente di candeggina reduce di una doccia ospedaliera ed abbraccio i miei cari.
Mi sorprendo a guardare i sorrisi inconsapevoli dei miei figli e penso mille volte prima di rispondere affannata o disattenta.
Ho imparato il valore del silenzio. Ho imparato a stare zitta.
Ringrazio Dio di essere viva e di poter ancora sbagliare e cadere, sperando rialzandomi di essere migliore e di sorridere di più. Per rispetto. Sì, per rispetto di chi nonostante tutto la sua battaglia l’ha persa per colpa di un nemico sconosciuto.