È ormai un anno e mezzo che sono stata chiamata ad occuparmi della direzione dell'ufficio di pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Lecce e per questa ragione, ho scelto di scrivere queste righe in prima persona.
Scelta, forse, poco condivisibile ma non avevo nessuna voglia di nascondermi dietro a discorsi di qualsiasi tipo ma solo condividere le mie esperienze e riflessioni maturate sia in campo lavorativo che nel mio ruolo in diocesi.
Credo che la giornata del primo maggio, quest'anno, assuma un significato ancora più profondo in considerazione della crisi scatenata dalla pandemia non solo a livello sanitario ma anche economico con le gravi ripercussioni sul modo del lavoro.
Per questa ragione spero di non scivolare in discorsi che ogni anno si ripetono pieni di promesse e tanta retorica.
Tutti sappiamo che la nostra, ormai spesso maltrattata, Costituzione all’art.1 comma 1 recita che «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» e che al tema del lavoro e dei lavoratori ha dedicato altri articoli collegati che però hanno lasciato, forse in ombra, i doveri specifici a cui tali diritti avrebbero dovuto essere correlati. Ciò è confermato dal fatto che la nostra società ha abituato ad un modello di massimizzazione del profitto a bassi costi che ha svilito il valore ed il senso del lavoro.
L’emergenza occupazionale, da decenni, attanaglia la nostra nazione ora, più che mai, è diventata un vero male sociale, argomento di battaglie sindacali, ma soprattutto, di propaganda politica cui non è seguito nulla di davvero tangibile ed oggi a seguito di questo lungo periodo di pandemia si è aggravato ulteriormente.
Dicevo del modello di massimizzazione del profitto che ha tolto valore al senso del lavoro. È proprio su questo termine che oggi voglio riflettere: Valore. Cosa vuol dire per la maggior parte di noi questo vocabolo? Non possiamo nasconderci che, spesso, per associazione di idee si pensa al prezzo.
Per molti il valore ha solo esclusivamente un significato economico e dunque solo ciò che passa dal mercato ha un valore perché in esso si stabilisce un prezzo che determina la quantità di moneta pagabile o ottenibile per un bene.
Ne consegue che ciò che non passa da un mercato non ha un valore.
Allora mi chiedo, il lavoro di una massaia o di un volontario ha forse meno valore di quello di un dipendente pubblico o privato perché non concorre all'economia di mercato?
Vorrei che venisse posta molta attenzione a questo passaggio, ormai la nostra mente è stata così condizionata che il termine valore non indica più doti morali, intellettuali, capacità specifiche ma solo ed esclusivamente denaro.
Ma se riflettiamo bene che anche il lavoro necessario alla produzione di beni e servizi da collocare sul mercato, ha perso valore. La globalizzazione ha creato una corsa ad una concorrenza al ribasso.
Si sfrutta la manodopera a basso costo, non regolare, spesso figlia dell'immigrazione oppure le aziende corrono all'estero dove i costi del lavoro sono più bassi.
In un'ottica strettamente commerciale tutto è ovvio e matematico ma in questo modo tutto si riduce alla sfera economica perdendo di vista il valore del lavoro come mezzo di espressione della dignità umana.
La corsa al ribasso ha aumentato le disuguaglianze ed ha fatto sì che il lavoro diventasse solo un peso una condanna per i più.
Allora se vogliamo veramente affrontare il tema del diritto al lavoro ed al suo valore per la realizzazione della persona è necessario cambiare paradigma e smettere di aspettare soluzioni che vengano dall'alto.
Troppe volte mi ritrovo a sentirmi impotente nell'ascoltare la disperazione di chi ha perso il lavoro, di chi lo cerca e di chi pur avendolo viene pagato solo due o tre euro l'ora.
Il cambio di paradigma richiede la necessità di svincolarsi da quel sistema economico di cui si parla anche nell'Esortazione apostolica di Papa Francesco “Evangelii Gaudium” definito “ingiusto alla radice”.
Un sistema che ha affermato un'economia in cui prevale la legge del più forte, dove il potente mangia il debole dove gli esclusi non sono “sfruttati” ma scarto,
Un sistema in cui si è affermata l'idolatria del denaro con la conseguente negazione del primato dell'essere umano ridotto ad essere unicamente un essere che consuma.
Un sistema dove regnano la speculazione l'evasione fiscale ed il diniego del bene comune. Basta allora schiavitù! Basta essere indotti a consumare il superfluo! Smettiamola di vivere come i criceti che girano nella ruota e cominciamo ad essere più contemplativi.
Il valore è anche bellezza e riconoscere la bellezza e la qualità è il primo passo da fare per ridare dignità al lavoro.
Dobbiamo iniziare a rispolverare un sano e consapevole n senso critico che consenta di riorganizzare le nostre abitudini di acquisto e di consumo accordando la preferenza ai prodotti nati dall'eticità, dal rispetto per i lavoratori, dalla sostenibilità ambientale.
Ritorniamo ad apprezzare il bello e l'unicità del lavoro di un artigiano, la preparazione la passione di un insegnante, l'abnegazione e la sapienza di un medico e così via.
Il prezzo giusto che si paga per l'ottenimento di un bene o di un servizio non si determina scegliendo quello più basso ma quello che da un giusto valore alle risorse, siano esse fisiche o mentali, impiegate e necessarie a produrlo.
Molti lettori potranno obiettare che quanto sostengo sia un lusso per pochi visto che oggi in gran parte del mondo la gente è già contenta quando riesce a metter insieme il pranzo e la cena.
Ma credo che questo processo di cambiamento verso la consapevolezza debba essere innescato da coloro che si trovano nella condizione di poter fare una scelta.
Il periodo di pandemia sta facendo vedere chiaramente che da una parte ci sono coloro che hanno un salario garantito e dall'altra tanti che non sanno come andare avanti.
Chi può deve avviare un ciclo virtuoso di generatività che produce valore anche attraverso la storia del territorio.
Spesso si parla di solidarietà ma, a volte, mi pare che si perda di vista il vero senso del termine.
Nel caso del lavoro la solidarietà si esprime, innanzitutto, nel rispetto dell'operato del lavoratore, nel farlo sentire parte integrante della società, e nel dargli la possibilità di esprimere la sua vocazione lavorativa.
Il riconoscimento del lavoro non passa esclusivamente da un adeguato salario, ma anche dalla gratificazione della persona che deve sentirsi protagonista nel contribuire al conseguimento del bene comune. Buon 1° maggio a tutti i lavoratori!
*direttore Ufficio diocesano di pastorale sociale e del lavoro