Forze di polizia e autorità giudiziaria hanno un peso centrale nel contrasto alla criminalità mafiosa: su questo fronte l’Italia, grazie a leggi di avanguardia, e alla dedizione e al sacrificio di tanti appartenenti al sistema sicurezza e alla magistratura, ha conseguito risultati esemplari in Europa e nel mondo.
Ma su questo fronte per la Chiesa italiana e per i suoi fedeli va bene così o si può immaginare qualcosa di più? Ci si ‘accontenta’ di un periodico richiamo alla legalità, senza aggiungere nulla di più, nonostante negli ultimi anni siano stati proclamati beati uomini come don Pino Puglisi e Rosario Livatino?
IL MONITO DEL PAPA POLACCO
Per rispondere facciamo un passo indietro di quasi trent’anni, fino al tardo pomeriggio del 9 maggio 1993. San Giovanni Paolo II sta completando la sua visita in Sicilia, e ha appena concluso la celebrazione della Santa Messa nella Valle dei Templi, ad Agrigento. Ricordiamo il suo lungo pontificato come ricolmo di affetto e di misericordia verso chiunque incontrava. Eppure, in quel momento egli tiene un discorso breve e duro, che diventa uno spartiacque: non ha timore a pronunciare il termine “mafia”, e nel farlo la sua condanna è senza scampo. Pone la mafia in conflitto col “diritto” alla vita, che è “santissimo” perché, prima che dell’uomo, è “di Dio”. E prosegue: “questo popolo siciliano è un popolo talmente attaccato alla vita, che dà la vita. Non può sempre vivere sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.
La contrapposizione è radicale: la condanna del Papa non rappresenta l’eco di sentenze pronunciate in sede giudiziaria. È molto di più: va alla radice della Fede. Non concede spazio per comprensioni, pur se remote o di contesto, né per impropri affiancamenti. Identifica nella conversione la strada unica che i mafiosi hanno di fronte a sé; il “convertitevi!” non è un invito, è un ordine: il Pontefice Santo richiama a questa necessità nel modo più solenne - “nel nome di Cristo crocifisso e risorto” -, e ammonisce i “colpevoli”, per loro “verrà il giudizio di Dio!”.
DUE FEDI INCOMPATIBILI
Perché il Pastore ‘ricco di misericordia’, come recita il titolo di una delle sue prime encicliche, evoca l’inappellabilità del giudizio divino, con una così intensa radicalità di condanna? Perché la “mafia” non è una semplice sommatoria di colpe individuali - più soggetti che concordano, per es., di commettere una serie di rapine -, ma è una struttura di peccato. L’organizzazione del male propria dell’associazione mafiosa - questa è la novità del discorso di Agrigento – non riveste solo un pur pesante disvalore civile: è qualcosa di qualitativamente più grave. Non è un mero insieme di cadute frutto della debolezza dell’uomo, è piuttosto la preordinazione, la programmazione e la realizzazione di atti contro l’uomo. È un organismo che sorge e opera allo scopo di ledere i diritti di chi non vi si assoggetta, a cominciare da quello fondamentale all’esistenza in vita. È un porsi contro Dio in modo non occasionale, per debolezza, ma voluto, pianificato e strutturato. È un’anti-Chiesa, prima ancora che un anti-Stato, perché esige tutto.
Si è spesso raccontato - e con ragione - del contributo di San. Giovanni Paolo II alla caduta dei muri e al ritorno delle libertà in tante Nazioni una volta oppresse dai regimi totalitari. Le parole da lui pronunciate nella Valle dei Templi hanno un significato analogo per la Sicilia; come il suo Magistero ha animato la resistenza pacifica al totalitarismo comunista, così ha concorso alla riscossa civile che si è avviata ed è cresciuta a partire da quegli anni nell’Isola. Quando egli traccia la linea di confine fra il popolo siciliano “attaccato alla vita” e i colpevoli della “civiltà della “morte”, egli indica elementi di somiglianza fra la mafia e i regimi totalitari.
L’una e gli altri pretendono di regolare nei dettagli la vita di coloro verso i quali estendono il potere, senza che lasciare nulla al di fuori. L’una e gli altri applicano le sanzioni più dure per ogni disobbedienza, e soprattutto quando qualcuno manifesta il desiderio di vivere in libertà. L’una e gli altri conoscono rituali, gerarchie del male, tecniche di seduzione e di intimidazione, e anzitutto l’autoconsegna dell’affiliato all’organizzazione, siglata dal sangue. L’una e gli altri mortificano anche fisicamente le persone con cui hanno a che fare, e riducono in miseria le terre nelle quali operano. L’una e gli altri cercano il consenso sociale, ben consapevoli di non reggere a lungo facendo esclusivo affidamento sulla violenza e sulla minaccia. L’una e gli altri utilizzano realtà in sé buone, distorcendone il significato e la sostanza: alle grandi manifestazioni di piazza o negli stadi degli Stati totalitari, che surrogano la voglia naturale di esprimere comunitariamente un ideale, corrispondono per le realtà mafiose la presenza visibile e rispettata nelle processioni o nei luoghi di devozione.
L’ESEMPIO DI DON PINO PUGLISI
Per questo a un cristiano la “legalità” non può bastare. Perché - presa alla lettera - “legalità” evoca il rispetto esclusivo delle leggi dello Stato; ora, a parte che talune di esse sono oggettivamente ingiuste, “legalità” ha un senso positivo se si collega alla legge naturale, a quella legge che ciascuno di noi ha dentro di sé: una legge i cui principi - per lo meno per grandi linee - hanno sempre costituito il fondamento degli ordinamenti civili. San Giovanni Paolo II indica una strada più impegnativa, e al tempo stesso più entusiasmante: l’alternativa alla mafia non è la “legalità”, ma la conversione, e quindi la santità. L’obiettivo del cristiano non è occuparsi dei beni confiscati o organizzare manifestazioni che nulla hanno di dissimile da quelle di un partito o di un sindacato: se gli capita di farlo, buon per lui, e speriamo che ci riesca con efficacia e per il bene comune. Deve ambire a qualcosa di più: a far sì che il mafioso sia consapevole del ‘giudizio di Dio’, e per questo abbandoni quella struttura di peccato e di morte e intraprenda un cammino opposto.
Don Pino Puglisi non era un prete ‘anti’; era un prete ‘per’. “Per” significa perfino, come lui era solito dire, “‘per’ i mafiosi, purché mostrino segni di ravvedimento”. Don Pino viveva col suo popolo, puntava alla pietà popolare; dal settembre 1990 iniziò a fare il parroco al quartiere Brancaccio di Palermo: non lanciava proclami, né gli interessava la propaganda. Guardava ai bambini del quartiere, a quelli che trascorrevano ore per strada e mitizzavano i mafiosi, e lavorava per allontanarli dai tentacoli di Cosa nostra. Diceva ai più piccoli che l’onore lo si ottiene essendo fedeli ai propri principi e prendendo le distanze dai criminali; è riuscito a sottrarne parecchi al reclutamento mafioso, che utilizza gli adolescenti soprattutto per lo spaccio al dettaglio di droga. La pastorale in terre di mafia ha necessità di annunciatori di Cristo, non di amministratori di immobili per usi sociali.
*da il Timone, rivista mensile, giugno 2022.