Fra le tante notizie e servizi giornalistici quotidiani di Portalecce, non è passata inosservata, almeno al sottoscritto, l’intervista che don Emanuele Tramacere, vicedirettore dell’Ufficio comunicazioni della nostra diocesi ha realizzato il 14 luglio scorso a un sacerdote ucraino Padre Roman Ostrovsky, vicerettore del seminario maggiore di Kiev.
Le parole del sacerdote intervistato, come era da immaginarsi, manifestano l’immensa sofferenza del popolo ucraino che da oltre 500 giorni subisce un’inaudita e barbara invasione da parte del capo del governo russo. Una sofferenza nei confronti della quale, l’Europa, gli Stai Uniti, la Chiesa e tante altre realtà sociali non sono rimasti a guardare, ma ognuno, secondo il proprio ruolo si è messo affianco del popolo ucraino con diverse modalità di sostegno e di aiuto.
Padre Roman, nell’intervista, aveva espresso gratitudine per questi aiuti, compreso l’invio delle armi, a proposito delle quali più avanti aggiunge: “Lo so che è strano sentirlo dire da un sacerdote, ma qui la situazione è davvero drammatica, molto dura e anche feroce”.
Nessuno di noi, infatti, può mettere in dubbio la sofferenza-disperazione con cui questo sacerdote ucraino è in un certo senso “costretto” a invocare l’invio delle armi come aiuto primario, in linea con la politica del suo presidente, dei Paesi occidentali della Nato e non della Chiesa, che invece insiste sul percorso del dialogo e delle trattative, come ha dimostrato recentemente Papa Francesco con l’invio a Kiev e a Mosca e negli Stati Uniti del card. Zuppi.
Se dobbiamo usare la massima comprensione per lo stato d’animo con cui il sacerdote ucraino ha anteposto la necessità delle armi per la soluzione del conflitto-invasione della sua patria, dall’altra parte non possiamo rinunciare al principio fondante del pensare e dell’agire come cristiani in qualunque società e in qualunque situazione: le Beatitudini evangeliche. Le beatitudini non sono da condividere solo in situazioni di relativa tranquillità sociale, dove lottare ed essere perseguitati per la giustizia e per la pace, non comporta il rischio della propria vita, ma anche in situazioni dove i cristiani vengono perseguitati e uccisi. Almeno questo è il percorso della Chiesa. Senza le beatitudini non ci sarebbero stati i martiri cristiani. Senza i martiri non ci sarebbe stata la Chiesa. “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani” (Tertulliano).
Con questo non dico che la politica non debba seguire la strada della legittima difesa e i cristiani che fanno parte dello stato aggredito non debbano fare il loro dovere anche militare. Ma il messaggio della Chiesa, reso noto da Papa Francesco e di noi preti, anche dei preti che svolgono il loro ministero in mezzo ai soldati che combattono, deve essere sempre un messaggio di pace e di incoraggiamento a trovare le vie possibili della pace (anche quando sembra tutto impossibile).
Noi preti siamo chiamati a svolgere il nostro ministero in mezzo al popolo di Dio usando sempre le “armi” della Parola di Dio, dei sacramenti e della carità. Non ci è consentito usare altre armi e neppure incoraggiarne l’uso. Poi ci sono le scelte personali di alcuni sacerdoti che hanno dismesso l’abito sacerdotale per indossare la divisa militare e imbracciare il fucile per difendere la propria patria o il popolo oppresso da dittatori. Scelte sicuramente molto sofferte, ma scelte personali. Così come credo sia una scelta molto sofferta ma personale quella di Padre Roman nel dichiararsi favorevole all’invio delle armi per la difesa della sua patria a noi tanto cara.
*Vicario generale