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Assisto al telegiornale assieme alla famiglia e alla nostra vicina di casa. Ivana è ucraina. Scoppia in lacrime. Le immagini provenienti da Israele e dalla Striscia di Gaza la riportano al suo Paese, martoriato dalla furia russa.

 

 

 

“Come a casa mia, come a casa mia”, ripete senza sosta. Non tenta analisi politiche, militari o geostrategiche. Nei suoi occhi carichi di lacrime e nelle sue parole ci sono solo pietà per morti, feriti, ostaggi. I missili di Hamas piombati sugli israeliani, sulle loro case, sulle loro città, ricordano a Ivana la sua città rasa al suolo dai missili dell’esercito di Putin. Le abitazioni rase al suolo a Gaza, con la gente disperata mentre soccorre le vittime, la fanno pensare ai suoi figli, alle sorelle e ai fratelli rimasti nella terra natale, rifugiati in cantina, terrorizzati dalla violenza ceca dell’aggressore, alla disperata ricerca di cibo da mettere in tavola. Una cinquantina d’anni, Ivana è arrivata in Italia da meno di dieci: professione badante. Ne va fiera, perché questo lavoro le ha consentito di far arrivare i figli all’università. Ora ospita a casa sua una famiglia di connazionali rifugiati dopo la fuga dalla guerra.

Terminati i servizi del Tg pronuncia poche frasi. Eloquenti. “Popoli disperati. Morti, fame, niente lavoro, niente acqua. Solo la paura dei missili. E quanti morti ancora?”. Tace, poi riprende: “anche qui due popoli ma i loro capi non amano la propria gente. Pensano solo alla guerra, alle armi, al potere. Prima è successo in Ucraina, adesso qui. Hamas odia chi in passato ha odiato. E viceversa. Ma chi ci va di mezzo? I giovani uccisi al concerto, i contadini israeliani… E chi ci va di mezzo? La povera gente palestinese”. E se ne va, sconsolata.

Poche espressioni per tracciare un quadro veritiero, per quanto solo abbozzato. Quanti popoli soffrono per colpa di governanti incapaci, indegni, protesi unicamente a mantenere il potere, accecati dal malanimo e dal risentimento? Leader determinati solamente a mantenere il proprio posto e i privilegi acquisiti.

Siria, Afghanistan, Yemen, Iraq, Iran, Nigeria, Sudan, Congo, Burkina Faso, Mozambico, Myanmar, Tigray, Kashmir, Birmania, Colombia, Haiti: un elenco incompleto delle guerre recenti o in corso. Ma non si possono dimenticare i conflitti locali, quelli etnici, quelli a sfondo pseudo-religioso, oppure generati dagli interessi economici e dal controllo delle materie prime, delle fonti energetiche, delle piantagioni finalizzate alla produzione di droga.

Governanti nazionalisti, terroristi senza scrupoli, neocolonialisti avidi sono tutt’oggi in grado di seminare conflitti nel mondo e rovinare la vita a donne e uomini di ogni latitudine. Generando, a loro volta, povertà, soprusi, migrazioni forzate.
No, neppure da questo conflitto in Terra Santa emergerà un popolo “vincitore”. Da qualsiasi guerra i popoli escono perdenti, impoveriti, prostrati. Vale per gli ucraini come per i russi, per gli israeliani come per i palestinesi. Tutte le guerre - affermava don Primo Mazzolari nel suo “Tu non uccidere” del 1955 - sono criminali, mostruosamente sproporzionate, trappole per la povera gente, antiumane e anticristiane e “inutili stragi”. Per poi ravvisare: “se quanto si spende per le guerre si spendesse per rimuoverne le cause, si avrebbe un accrescimento immenso di benessere, di pace, di civiltà: un accrescimento di vita”. I leader di oggi dovrebbero abbeverarsi a don Mazzolari come agli insegnamenti di Papa Francesco, che ripete: “da ogni terra si levi un’unica voce: no alla guerra, no alla violenza, sì al dialogo, sì alla pace!”.

 

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