Non sappiamo ancora se e come sarà strutturato il cosiddetto reddito di cittadinanza. Il se dipende dai soldi che dovranno essere recuperati all’interno del bilancio dello Stato; il come dagli obbiettivi che si vorrà in concreto perseguire.
Ovviamente i due aspetti sono tra loro strettamente connessi. Allo stato attuale la spesa che si intende sostenere per finanziare il reddito di cittadinanza può essere sostenuta aumentando il già oneroso debito pubblico. L’impressione è che ci troviamo di fronte ad una misura che a seconda della direzione che potrà prendere, assumerà i connotati di un classico intervento di contrasto alla povertà, sull’esempio del reddito di inclusione promosso dal governo Gentiloni, oppure quelli di uno strumento di accompagnamento, limitato nel tempo, per chi un lavoro non ce l’ha ma si dispone a ricercarlo. In quest’ultimo caso i problemi che potrebbe sollevare sovravanzano di gran lunga i benefici. Vediamo, in sintesi, perché.
Intanto la misura per funzionare dovrebbe contare su una attività efficace dei centri per l’impiego, il cui compito è quello di far incontrare domanda ed offerta di lavoro. Il governo, infatti, consapevole di questo, prevede una azione propedeutica (si pensa di investire non meno di tre miliardi di euro) volta a dotare i centri per l’impieghi di competenze e mezzi di cui oggi sembrano privi. Per chi ha avuto modo di imbattersi in queste strutture burocratiche, ha subito compreso che l’aiuto nella ricerca del lavoro si traduce praticamente in niente salvo che nella iscrizione ad un lungo elenco di disoccupati. Quand’anche si dotassero i relativi funzionari di maggiori competenze tecniche, i centri si rivelerebbero ancora strumenti inefficaci all’interno di un sistema territoriale povero di opportunità di lavoro. Davvero, allora, siamo sicuri che uno strumento di questa natura sia la soluzione più efficace a dare dignità ai tantissimi giovani che oggi, specialmente nel sud, si ritrovano inoccupati, disoccupati, o che non studiano né lavorano? Una simile proposta, che sul piano politico-elettorale è stata indubbiamente un “cavallo vincente”, sul piano pratico rischia di rivelarsi un flop. Perché delle due l’una: o c’è un mercato del lavoro capace di assorbire una quota significativa di disoccupati, oppure, in mancanza, il sostegno finanziario si riduce ad un intervento di carattere assistenzialistico che in quanto tale, come afferma Papa Francesco, condanna i giovani a sopravvivere anzicchè vivere. “Dev’essere chiaro – continua il Papa - che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro. Si va in pensione all’età giusta, è un atto di giustizia; ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35 o 40 anni, dare un assegno dello Stato, e arràngiati. “Ma, ho per mangiare?”. Sì. “Ho per mandare avanti la mia famiglia, con questo assegno?” Sì. “Ho dignità?” No! Perché? Perché non ho lavoro.” (Papa Francesco ai lavoratori Ilva di Genova).
Questa forma di assistenzialismo è la sconfitta della politica che viene meno alla sua responsabilità di “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E’ un intervento che fonda “una società dello scarto, magari scambiata come solidarietà”.
In questa prospettiva, il reddito di cittadinanza è la risposta sbagliata ad un problema vero: il lavoro.
Che fare allora? Come riconnettere gli esclusi alla cittadinanza del lavoro? Come far percepire loro lo “Stato amico”?
Intanto occorre chiarire di chi stiamo parlando. Il tema della promozione di nuove opportunità di lavoro non può essere affrontato in termini generalistici. Le cifre della inoccupazione, specialmente giovanile, non rappresentano una massa informe. Ci sono i giovani “telemaco”, di cui oggi si parla speso e che sono i veri protagonisti del fenomeno delle nuove start-up che rischiano di essere semplicemente quelli che trovano nella ricchezza materiale e soprattutto culturale della propria famiglia un valido trampolino per il loro “volo”, che per questo si rivela meno folle. La maggioranza dei giovani del Mezzogiorno arrancano (senza il welfare minimalista assicurato dalle pur scarse risorse delle proprie famiglie sperimenterebbero livelli di sussistenza ancora più precari) non dispongono di un sufficiente capitale culturale che dia loro la possibilità di volare, la spinta e il coraggio di scommettere sulle proprie risorse. Ciò di cui hanno urgente bisogno è un capitale di competenze, di relazioni, di idee, assieme ad un capitale di fiducia che allenti e sconfigga lo scoramento, la disillusione, la tristezza. Essi avrebbero bisogno non di una rendita, ma di un percorso di accompagnamento verso un approdo concreto di autorealizzazione. Certamente questo non è sufficiente, ma è indubbio che il lavoro non si crea per decreto. Un governo serio affronterebbe il tema del lavoro secondo logiche e strumenti diversi. Ripensando, ad esempio, le modalità di utilizzo dei fondi comunitari, oggi dominate dalla logica degli interventi a “compartimenti stagni” a scapito di una strategia unitaria. Stando di più sul territorio per stanare soprattutto gli innovatori, i giovani che vogliono scommettere sulle loro potenzialità, rischiare il proprio talento, i propri “principi attivi”, e mettere fuori gioco “gli estrattori di rendita” che bloccano ogni vera crescita. E poi, decidendo, finalmente, di valutare i risultati non più in termini di quantità di risorse impegnate, ma di impatto prodotto sulla vita concreta delle imprese e dei territori.