Montalbano lascia Livia con una telefonata e Gramellini lo iscrive nella “congrega dei maschi vili e indecisi a tutto” (parole sue, con il termine “vili” posto in grassetto).
Alcune considerazioni al riguardo forse sono però doverose. Innanzi tutto, chi si sorprende di un tal esito della storia, probabilmente è un po’ distratto. Mostra di non aver letto la saga del Commissario più famoso d’Italia. Se lo avesse fatto, probabilmente si sarebbe accorto che quell’epilogo non è per nulla sorprendente. È la naturale conclusione di una vicenda che dura fin da quando il personaggio di Livia fa la sua comparsa nelle pagine dei romanzi. Una storia vissuta sistematicamente “a distanza”; e non per necessità, ma per una libera scelta del carissimo Salvo, che per tutta la durata della serie non fa altro, nel rapporto con l’amata, che “collocarla” in uno spazio “altro”, diverso da quello del suo quotidiano, incapace fin dalle prime battute, di trasformare Livia in una presenza che scomoda e magari sconvolge. Livia non è stata lasciata nell’episodio finale de “Il metodo Catalanotti”. No; è stata lasciata molto prima e molte volte. È stata lasciata ogni capodanno, quando Montalbano preferiva gli arancini di Adelina alla possibilità di raggiungerla a Boccadasse per festeggiare con lei l’arrivo del nuovo anno; quando, sotto la spinta della donna amata, aveva maturato insieme a lei la decisione di adottare un bambino, e non è stato capace di fare il passo decisivo per concretizzare questo progetto sognato insieme. È stata lasciata quando, venuta in Sicilia per trovarlo, egli, invece di trovare momenti liberi da passare insieme, pensava bene di affidarla alle cure del sempre presente e disponibile Mimì Augello, forse “fimminaro”, ma sicuramente non peggiore di lui e comunque più capace di lui di mediare tra le spinte di un Peter Pan impenitente e gli impegni derivanti dalla condizione di uomo adulto e responsabile.
È inutile, allora sorprendersi. La fine della storia è la naturale conseguenza delle premesse che l’hanno animata.
Ma detto questo, ancora rimane qualcosa da dire. Sì, certo. Montalbano l’inaffidabile, il maschio vile e indeciso a tutto. Eppure, questo soggetto un po’ ci assomiglia. Ma non soltanto perché è simile alla “congrega dei maschi vili e meschini” che popolano le vie di questo mondo. No. Montalbano ci assomiglia, forse, per altre ragioni.
Sigmund Freud affermava che l’uomo maturo è colui che sa lavorare e che sa amare. Bene, Montalbano è l’epigono di una schiera di personaggi letterari (soltanto?) che raggiungono risultati brillantissimi sul piano professionale, ma che sono uno sfacelo sul piano delle relazioni interpersonali e affettive. Forse egli incarna più di altri questo modello. Ma non si può dire che non sia in buona compagnia. In fondo, a questo modello appaiono riconducibili anche altre figure che hanno popolato e popolano la letteratura contemporanea e che spesso la fiction ci mette sotto gli occhi. Un esempio? Imma Tataranni, Mina Settembre, Lolita Lobosco, Petra. Tutte presenze che hanno allietato le nostre serate covidiane e che hanno messo in scena una umanità intrisa di fragilità relazionali nonostante i successi professionali. E il fatto che molte di queste figure (se ne possono citare altre) siano anche donne, fa capire come l’indecisione di Montalbano, per quanto possa essere un problema legato a una inclinazione di genere, in realtà tradisce ferite e vulnerabilità molto più profonde, che appartengono all’uomo. E per questo appartengono a tutti, senza distinzione di sesso, genere, ceto o qualsiasi altra distinzione si voglia chiamare in causa.
Sono personaggi che ci restituiscono l’immagine di un’umanità dimezzata. Che sa sicuramente lavorare, ma che altrettanto sicuramente non sa amare. Almeno, se per “amare” intendiamo la capacità di costruire relazioni con l’altro intrise di intimità e senso di appartenenza. E allora Montalbano è sicuramente l’ultimo dei maschi vili e insicuri. Ma ci sono ragioni per credere che sia molto di più di questo; che sia l’idealtipo non soltanto della congrega maschile, ma della congrega umana, alla costante ricerca di se stessa in un mondo dove diventa sempre più difficile riconoscersi e ritrovarsi.