Riproponiamo l’intervista a firma del “nostro” Matteo Caione che l’arcivescovo ha rilasciato oggi al quotidiano Avvenire nella PAGINA “Portaparola” che si occupa abitualmente di Chiesa e media e che ora sta raccogliendo le esperienze delle diocesi in tema di comunicazione durante e dopo il lockdown.
Con la Pentecoste l’arcidiocesi di Lecce ha concluso le celebrazioni in streaming. L’iniziativa di “Portalecce.it”, che nel deserto di una lunga pandemia ha connesso la Chiesa e le famiglie, restituisce quindi il testimone alla normalità. L’arcivescovo salentino, Michele Seccia, racconta di un’esperienza intensa e parla della necessità di tornare a sedersi alla mensa del Signore.
Monsignor Seccia, domenica scorsa l’arcidiocesi di Lecce ha concluso le celebrazioni in streaming. Perché non proseguire con le dirette anche oltre la fine del lockdown?
Dallo scorso 18 maggio lo streaming e le messe alla presenza dei fedeli hanno camminato insieme parallelamente. Ora riteniamo e speriamo di esserci ormai lasciati alle spalle il momento più brutto della pandemia. Le messe sui social sono state una cosa bella. Ora però, come ha più volte auspicato papa Francesco, c’è bisogno di tornare in chiesa. C’è bisogno di uscire dal tunnel per riprendere familiarità con i luoghi che rappresentano le comunità.
Oltre al rosario quotidiano, alle messe, anche la Lectio divina che ha tenuto ogni martedì è stata trasmessa in diretta. Che esperienza è stata?
Abbiamo sperimentato. E la risposta dei fedeli e la partecipazione online sono state notevoli. Durante i settanta giorni di quarantena, la messa è stata celebrata ogni giorno dalla cappella del Seminario e trasmessa tramite il portale diocesano Portalecce.it e in diretta tv dall’emittente locale Telerama. Io ho presieduto ogni domenica, oltre alla Lectio divina del martedì, mentre i sacerdoti si sono alternati durante la settimana. È stata una esperienza di carità pastorale, un tentativo, spero ben riuscito, di alleviare la difficoltà di non poter partecipare di persona.
Cosa hanno imparato le comunità?
Anche se l’eucarestia in tv o su internet non ha lo stesso valore sacramentale, per moltissimi questo servizio ha rappresentato l’olio della consolazione e il vino della speranza. Di questo olio e di questo vino si è nutrito il nuovo “monastero invisibile” che si è formato giorno per giorno grazie a Portalecce e ha pregato intorno all’altare anche per i defunti di ogni parrocchia che non sono potuti entrare in chiesa prima di essere sepolti.
Con il ritorno delle messe col popolo, le presenze dei fedeli in chiesa si sono però ridotte, forse per prudenza o per paura. Cosa si può fare per recuperare le comunità perdute?
I parroci e le comunità, oltre ad essere baluardi di carità - Dio solo sa quanto bene si è fatto e si continuerà a fare per vecchi e nuovi poveri in tutto questo tempo - ora però devono diventare anche sentinelle di speranza. Solo tornando nel “cenacolo” impareremo, come gli apostoli con Maria, a vincere la paura. È come se ci invitassero a cena: non si può vivere quel momento di fraternità restando ognuno a casa sua. Noi pastori dobbiamo esercitare la pazienza imparando a saper attendere: da un lato persiste la paura del contagio, dall'altro l'illusione che l'esperienza di Chiesa si possa sostituire con i media. La Chiesa si fa a tavola. E la tavola non è un luogo virtuale.