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Portalecce, all’indomani del Giubileo episcopale dell’arcivescovo Michele Seccia, ripropone l’indirizzo augurale pronunciato a nome della comunità diocesana dal vicario generale, mons. Luigi Manca, all’inizio della concelebrazione eucaristica.

 

 

Con trepidazione e con gioia rivolgo a lei, padre carissimo, un pensiero di saluto a nome dell’intero presbiterio di Lecce:

e mi piace iniziare ricordando un particolare scontatissimo ma anche elettrizzante: che il servizio pastorale, per esplicita volontà di Gesù, è una modalità del suo stesso amore, vale a dire, dell’amore più grande. In Gv 21,15-19, Gesù chiede a Pietro “Mi ami tu più di costoro?”, e alla risposta affermativa di Pietro, risponde a sua volta: “pasci le mie pecore”. Numerosi Padri della Chiesa, da Ambrogio ad Agostino, a Gregorio Magno, da Basilio a Giovanni Crisostomo, commentando questa pericope evangelica, sono tutti concordi che il pascere, il servizio pastorale è prova d’amore, la prova d’amore più grande che ogni pastore può manifestare per il suo Signore. Dei Padri menzionati, riporto solo una citazione del Crisostomo: “Gesù, infatti, avrebbe potuto dire a Pietro: ‘se mi ami, digiuna, dormi sulla nuda terra, veglia incessantemente, sii padre degli orfani’”, invece, continua il Crisostomo: “giustamente, pertanto, il Signore affermò che la cura del gregge è prova dell’amore per lui”.

Come a Pietro, anche a lei 25 anni fa Gesù ha detto: “se mi ami pasci le mie pecore”. E come Pietro ancora oggi nella persona del suo successore Papa Francesco dà prova d’amore nel pascere le pecore insieme ai vescovi in tutte le parti del mondo, così lei ha dato prova d’amore con la cura pastorale condivisa con i presbiteri delle due diocesi di cui è stato pastore, San Severo e Teramo-Atri, ed oggi con i presbiteri della Chiesa di Lecce.  

Il suo è un episcopato che ha incrociato situazioni di particolare drammaticità: dal terremoto alla pandemia. La sua instancabile azione di vicinanza alle popolazioni terremotate è stata in più occasioni testimoniata dagli amici di Teramo. Dopo poco più di un anno dal suo arrivo a Lecce, lei ha dovuto far fronte, come tutti i vescovi, alla grave situazione causata dalla pandemia; esperienza inedita per la sua drammaticità e per le conseguenze imprevedibili sul piano sanitario, economico, sociale e pastorale.

In quest’atmosfera di tristezza e paura, lei non ha messo da parte il motto che si è scelto all’inizio del suo episcopato: adiùtor gaudii vestri, anzi ne ha fatto la stella polare che le ha consentito di porsi con realismo cristiano nel difficile momento storico, evitando una esagerata prudenza e un irrazionale ottimismo nel parlare e nell’agire.  Si sono maggiormente manifestate le doti di pastore solerte ma non invadente, che ascolta e incoraggia, che sa essere presente là dove maggiore è l’urgenza, senza trascurare nessuno.

Istituendo l’Anno Oronziano, ha proposto a tutta la Chiesa di Lecce di attingere e rinnovarsi alle sorgenti della fede, che Oronzo primo missionario, ha seminato nei nostri territori.

La priorità della sinodalità, individuata da lei sin dai primi giorni del suo arrivo a Lecce, oggi è una priorità della Chiesa universale, così come ha profeticamente intuito Papa Francesco. Si riparte dunque dal Sinodo di tutte le Chiese, sinodo non come celebrazione di eventi, ma come percorso, come cammino nella realtà mistica della Chiesa perché la Chiesa possa  essere seme di speranza nel mondo di oggi con tutte le sue complessità.

Le due lettere pastorali: “Ascolta Popolo mio” e “Chi spera in Dio non resta deluso, la forza della Speranza”, di cui lei ha fatto dono alla Chiesa di Lecce, sono l’eco di questo bisogno di sinodalità: l’ascolto come movimento sistolico e la forza della speranza come momento diastolico: camminare insieme realizzando l’unità d’intenti e aprendosi alla missione. Auguri.

*vicario generale

 

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