Irreversibilità della patologia, presenza di sofferenze fisiche o psicologiche che il paziente reputa intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli.
Nella sentenza n.135, depositata lo scorso 18 luglio, la Corte costituzionale ribadisce i quattro requisiti per l’accesso al suicidio assistito, già stabiliti dalla stessa Corte nella sentenza n.242/2019, ampliando però l’interpretazione del concetto di “trattamento di sostegno vitale” e rilanciando “lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza”.
Abbiamo incontrato il medico palliativista Massimo Damini, responsabile dell’Hospice della Casa di cura San Camillo di Cremona, gestito dai Camilliani, e direttore sanitario del Centro cure palliative-Hospice delle Piccole figlie di Parma.
Dottor Damini, da 30 anni lei è a quotidiano contatto con situazioni di estrema sofferenza e terminalità. Nel dibattito sul fine vita il punto forse più controverso rimane sempre quello della definizione dei trattamenti di sostegno vitale.
È una questione davvero controversa, sia dal punto di vista clinico sia dal punto di vista bioetico. Tuttavia la definizione non può essere scollegata dal discorso “temporale”, ossia di quanto tempo di vita rimanga.
Lei si è mai trovato di fronte a richieste di aiuto a morire?
Sì; capita talvolta che i pazienti mi dicano: “Dottore, faccia qualcosa per finire alla svelta questa situazione”, oppure: “mi faccia una punturina”. È inutile negarlo, queste richieste esistono, ma sono numericamente esigue. Dalla nostra esperienza vediamo che questa domanda, umanamente comprensibile, non nasce tanto da un desiderio di morire, quanto dalla paura di soffrire; è una domanda di aiuto, sollievo dal dolore, accompagnamento. E posso dire che in 30 anni di esperienza in hospice l’offerta di cure palliative efficaci ha sempre funzionato, nel senso che non mi sono mai trovato di fronte ad un paziente che le rifiutasse rimanendo fermo nel suo proposito. Proposito che peraltro avrei rispettato.
Che cosa intende dire?
Se un paziente mi dicesse: “Dottore, per me questa situazione rimane comunque insopportabile”, dovrei rispettare, pur non condividendola e ovviamente non mettendola in pratica, la sua scelta. Pur comprendendola dal punto di vista umano, dal punto di vista deontologico-professionale non ritengo che il mio ruolo sia quello di decidere della vita o della morte delle persone.
Tornando ai trattamenti di sostegno vitale, la Corte offre un’interpretazione “estensiva” rispetto ai paletti ribaditi qualche settimana fa dal Comitato nazionale di bioetica, includendo anche pratiche “infermieristiche”.
Mi sembra che la Consulta voglia allargare le maglie a procedure che sono più di tipo infermieristico, come lo svuotamento manuale dell’alvo, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali; pratiche la cui mancanza di esecuzione diventerebbe però fonte di ulteriore sofferenza, quindi è esattamente l’opposto. Sarebbe un controsenso non farle. Ritengo però un errore focalizzare l’attenzione e la discussione solo sui trattamenti di sostegno vitale; altrettanto importante è il perfetto stato di capacità e consapevolezza del paziente.
In base alla sua esperienza, quanti sono i pazienti pienamente consapevoli della propria situazione?
Una percentuale minima; nella stragrande maggioranza la famiglia preferisce – e chiede a noi – di non rivelare completamente la verità. Prima di arrivare – in presenza dei quattro suddetti requisiti – ad una decisione drastica sulla base di un mero approccio tecnicistico, la differenza che fanno le cure palliative è un percorso di consapevolezza, presa in carico, accudimento e fiducia. Una differenza non da poco; per questo ai quattro requisiti ne aggiungerei un quinto indispensabile: l’accesso alle cure palliative. Non bisogna radicalizzare la discussione tra i favorevoli e i contrari al suicidio assistito senza toccare questi aspetti in grado di fare la differenza; per me rimane il dovere di riaffermare il ruolo di una medicina umanizzata. Il medico nasce, studia e si forma per prevenire e contrastare la malattia per quanto possibile, per guarirla quando è possibile, ma anche per stare accanto nella sofferenza quando il suo apporto può essere di accompagnamento e sollievo.
È sufficiente per risolvere tutti i problemi?
Certamente no, ma anche laddove non si può più guarire si può sempre curare, fino alla fine, riducendo al minimo le condizioni in cui ci sarà chi farà scelte diverse, ma le farà sulla base di una situazione in cui nessuna via è rimasta intentata. Guardi che per un medico è più difficile stare nella malattia e nella sofferenza, piuttosto che risolvere drasticamente il problema. Come le dicevo, dal punto di vista umano certe affermazioni dettate da paura e disperazione sono comprensibili anche per noi medici, ma è lì che la medicina a tutela della vita è chiamata a mettere in campo le sue armi migliori.
La sentenza n. 135 sottolinea anche la necessità di tutelare “i più fragili” da possibili abusi, primo tra i quali la “spinta sociale” a sentirsi un peso per gli altri “con la conseguenza di indurre a optare per la richiesta di morire”.
Qui si apre un terreno insidioso: già nelle prime fasi di malattia si fa strada in molti un senso di inutilità sociale e di peso per i familiari, soprattutto nei nuclei più fragili. Negli ultimi anni la società è molto cambiata: anche noi abbiamo toccato con mano situazioni veramente difficili con famiglie monoparentali o costituite da una coppia di anziani in cui la persona malata non ha nessuno che la possa accudire perché anche il partner è in cattive condizioni di salute.
C’è un dibattito anche sulla sedazione palliativa. Di che cosa si tratta?
Anzitutto voglio fare chiarezza sfatando uno stereotipo: l’idea di alcuni che in hospice si somministri la sedazione palliativa come forma edulcorata di eutanasia. Non è assolutamente così. La sedazione palliativa si fa in un terzo, forse in un quarto dei malati; non è una procedura automatica per tutti i pazienti che arrivano da noi, bensì una pratica di controllo della sofferenza, quando essa diventa intrattabile - ossia non risponde più a nessun trattamento - e in situazione di morte imminente. Ma c’è un altro punto che vorrei chiarire.
Quale?
Il ruolo del medico, che sembra debba ridursi a mero esecutore di una volontà espressa in nome del cosiddetto principio di autodeterminazione, diventando così un semplice esecutore di tecniche, o di omissione di tecniche laddove venga rifiutato un trattamento. Il tutto va calato all’interno di un contesto. O affronto le questioni in modo tecnicamente freddo, oppure – e questo fa la differenza – le affronto in un quadro di cure palliative, ossia all’interno di un rapporto di relazione e di comunicazione che si costruisce nel tempo conquistando la fiducia e l’affidarsi del malato. Quante volte mi sento dire da un paziente che non vuole l’inserimento del catetere vescicale! Spiegandogli però i benefici dell’inserimento contro i rischi del non metterlo, il paziente si fida e alla fine accetta. Esistono un’autonomia nelle scelte del medico, una dignità professionale e uno spazio che vanno tutelati. Non siamo macchine da guerra che tormentano i pazienti con tutti gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, come qualcuno tenta di descriverci; semplicemente non possiamo abdicare al nostro ruolo di interlocutori sulla base di conoscenze che noi abbiamo, a differenza dei familiari che talvolta tentano di far valere false informazioni veicolate da Internet.
Di fronte al fine vita, quanto è difficile dare risposte?
A volte faccio fatica a trovarle, ma cerco sempre di risolvere le situazioni all’interno di un percorso condiviso. Se manca il tempo per costruire una relazione – alcuni pazienti arrivano pochi giorni prima del decesso – rimane sempre la possibilità di accompagnarli ad una morte dignitosa controllando la sofferenza. Si tratta di un contesto complesso, pieno di variabili e di insidie, ma l’eccessiva automatizzazione di un processo di cura, soprattutto a fine vita, spaventa.
Che cosa le hanno insegnato trent’anni di hospice e cure palliative?
Che a queste situazioni occorre sempre avvicinarsi in punta dei piedi, tentare di capire le dinamiche familiari e il quadro di valori delle persone. La scelta terapeutica è l’ultima cosa, nel senso che avviene all’interno di un contesto di conoscenza più ampio perché i veri bisogni e le vere aspirazioni dei nostri pazienti molte volte non sono quelli che noi ci aspetteremmo.