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Va identificata correttamente la ragione del collocamento in detenzione domiciliare di un condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione per delitti di mafia, deciso dal magistrato di sorveglianza di Milano, e di casi analoghi.

 

 

 

Si ha difficoltà a immaginare che sia l’ennesimo atto della trattativa Stato-mafia, come ripete qualche ex pm. Non è però nemmeno l’esito dei provvedimenti varati dal Governo a seguito dell’emergenza Covid19, come sostiene qualche esponente delle opposizioni, perché nessuna delle disposizioni delle ultime settimane lo autorizza.

È piuttosto uno dei tanti effetti della non adozione da parte di Governo e Parlamento di misure efficaci contro il patologico affollamento degli istituti di pena, reso ancora più drammatico dalla pandemia. Avendolo denunciato nell’immediatezza (CLICCA QUI), constatiamo che ancora una volta l’autorità giudiziaria per proprio conto colma - in modo certamente opinabile - il vuoto della rinuncia a intervenire da parte dell’autorità politica. L’attuazione delle pochissime misure decise dal Governo ha fatto uscire temporaneamente dal carcere poche decine di persone; se oggi negli istituti di pena ci sono circa 5000 detenuti in meno rispetto all’inizio della vicenda Covid19 è per la supplenza della magistratura (la differenza era già di 3.384 in un mese, 57.846 al 31 marzo - ultimo dato ufficiale disponibile - rispetto ai 61.230 del 29 febbraio).

È evidente che l’iniziativa giudiziaria, oltre a superare gli ambiti di competenza, è frammentata, costituendo la disomogenea sommatoria di tanti singoli provvedimenti, e quindi conduce a decisioni diversificate e discutibili. Ma fino a quando Esecutivo e Camere non affronteranno la questione carceri come una emergenza nella emergenza, con norme di legge efficaci e serie, e con atti conseguenti, stracciarsi le vesti di fronte a mafiosi che tornano a casa, e interessarsi solo delle ipotetiche colpe di questo o di quel magistrato, significa scaricare su altri l’omesso esercizio delle proprie gravi responsabilità.

 

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