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La vicenda della cooperante milanese Silvia Romano esige più livelli di approfondimento, equilibrato e non polemico.

 

 

Va anzitutto ricostruito l’accaduto. I media più autorevoli danno per scontato che per far tornare a casa Silvia Romano il Governo abbia corrisposto un riscatto, e che esso sia finito nelle casse di al-Shabab, appartenente al network di al-Queda, che controlla le aree nelle quali sono avvenuti sia il rapimento che la liberazione. Il Presidente del Consiglio ha mantenuto il silenzio sul punto, pur non avendo fatto mancare la sua presenza e la sua voce al momento del rientro in Italia della giovane. Il ministro degli Esteri ha invece sostenuto che a lui non risulta alcun pagamento; il che, col coordinamento non esemplare mostrato su altre questioni fra le varie articolazioni dall’Esecutivo, non significa necessariamente negare che il pagamento sia avvenuto, ma solo - dando credito alle sue parole - che si tratta di particolare ignoto al titolare di uno dei dicasteri più importanti. Per il rilievo della vicenda, il Governo - e chi in esso ha la delega ai Servizi di informazione e sicurezza, quindi il Presidente del Consiglio - non può far mancare una seria informativa al Parlamento, in particolare al Copasir, che costituisce l’organismo parlamentare di verifica e di controllo dell’attività dei Servizi medesimi.

Si può comprendere che finora siano stati pubblicamente omessi molti particolari, inclusi quelli di come si è giunti alla liberazione: è coinvolta l’attività dei nostri Servizi, e divulgare tutto comprometterebbe eventuali informatori e collaboratori in territori difficili. Tuttavia la forma ristretta del Copasir e il riserbo che ne connota i lavori fornirebbe le adeguate garanzie di riservatezza. Qualche forza politica ha chiesto l’audizione in quella sede del Capo del Governo: c’è da augurarsi che segua a breve. Questa interlocuzione è la forma corretta e istituzionale per riferire gli snodi salienti del caso, e soprattutto per dipanare le (apparenti?) incoerenze comunicative riscontrare. Rappresenta peraltro una forma certamente più corretta della trasmissione a taluni media del contenuto delle prime dichiarazioni rese da Silvia Romano all’autorità giudiziaria subito dopo l’arrivo in Italia: non è fuori luogo domandarsi se la cautela nel diffondere notizie così sensibili competa solo al Governo e alle sue articolazioni, e non coinvolga pure una magistratura che talora preferisce depositare verbali non immediatamente ostensibili nella redazione di qualche giornale prima ancora che nella segreteria del proprio ufficio.

 

Se, come viene riferito da più fonti mediatiche, e come è presumibile in considerazione dei luoghi del rapimento e della prigionia, il prezzo del riscatto è stato ripartito fra bande criminali che hanno gestito taluni momenti della detenzione della giovane e l’organizzazione al-Shabab, è lecito domandarsi se l’Italia ritiene la questione del tutto conclusa. Mi spiego: al-Shabab è un gruppo terroristico che ha nei sequestri di persona, ma anche di imbarcazioni nel mare di Somalia, una delle fonti di finanziamento più significativo. Sono - per ricordare una delle loro gesta più efferate - gli autori della strage di Garissa, nelle vicinanze di Nairobi, del 2 aprile 2015, allorché oltre 150 universitari furono uccisi uno per uno dopo la prova di recitazione del Corano: fu tagliata la testa di chi non lo conosceva a memoria.

Poiché è certo che il denaro ricevuto per la liberazione di Silvia Romano servirà ad al-Shabab per acquistare più armi, compiere più attentati, e organizzare nuovi sequestri di persona e di navi, in una zona marina di rilevante interesse economico, sarebbe interessante sapere se il Governo italiano intende proporre una collaborazione ai Governi somalo e keniota per limitare l’operatività di questo gruppo criminale, che sarà senza dubbio incrementata dalle risorse ricevute. Magari sollecitando il coinvolgimento di quella Turchia - nostra alleata nella Nato - che, come è stato riferito ufficialmente, ha avuto un ruolo nell’esito positivo di questa vicenda, grazie all’influenza che esercita in quell’area, ed esigendo l’appoggio dell’Unione europea.

Vorrei essere ancora più chiaro. Per anni gli attacchi terroristici di matrice islamica sono stati al centro dell’attenzione mediatica e politica, soprattutto quando hanno interessato le strade e le piazze delle città europee e occidentali, provocando vittime e devastazioni. Da quando lo Stato Islamico ha subito una serie di sconfitte nei territori nei quali si era radicato, fra Siria e Iraq settentrionale, l’audience sul tema è notevolmente calata. Ma questo al più segnala la superficialità delle reazioni mediatiche, non già la scomparsa del fenomeno, che peraltro ha continuato a far registrare attentati e omicidi in zone lontane dagli occhi, e quindi dal portafoglio e dal cuore: a chi interesseranno mai i conventi distrutti e i religiosi annientati in Siria, o le giovani di fede cristiana rapite, stuprate e uccise da Boko Haram in Nigeria, o le chiese fatte esplodere in Sri Lanka o in Egitto?

È sufficiente la controversa storia del sequestro e della liberazione di una giovane cooperante italiana per mostrare come il fenomeno non sia tramontato: è triste che polemiche e contrasti ruotino attorno a lei, e non affrontino in modo chiaro e diretto la questione vera, che è quella della persistente operatività di organizzazioni terroristiche islamiche, sol perché queste ultime al momento non hanno la forza, o la convenienza, di attaccare in Occidente.

Se una iniziativa del genere non fosse realizzabile, andrebbe spiegato perché: in un passato anche recente dall’Italia sono partite missioni militari all’estero, impegnate nel sostegno alle autorità di singoli Stati aggrediti dal terrorismo; talune di esse sono ancora in corso, e l’area somala è al tempo stesso fra le più colpite, e fra quelle che per ragioni storiche giustificherebbe un intervento italiano. Sarebbe singolare se l’Esecutivo italiano si ritenesse appagato della liberazione della giovane milanese: che è importante che sia avvenuta, ma che non risolve la questione in prospettiva.  

 

Immaginiamo però che l’attuale Governo non intenda fare nulla di tutto questo. Se l’alternativa non è quella di sperare che il prossimo rapimento di italiani avvenga il più tardi possibile, essendo tuttavia rassegnati a non svolgere alcuna prevenzione bensì – se e quando accadrà – a pagare il riscatto, e basta, il minimo che si possa fare è adottare alcune cautele sul piano interno.

Esiste una antinomia con cui fare i conti. Dopo anni di sequestri di persona a scopo di estorsione - oltre 450 fra il 1970 e il 1990 -, consumati fra Calabria, Sardegna e Lombardia, la svolta e l’azzeramento del fenomeno vi furono quando una legge, la n. 82/1991, stabilì: a) l’obbligo del «sequestro del beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge, e ai parenti e affini conviventi»; b) la facoltà del blocco dei beni nei confronti di «altre persone» se vi fosse stato il «fondato motivo di ritenere che tali beni» potessero essere utilizzati «direttamente o indirettamente, per far conseguire agli autori del delitto il prezzo della liberazione della vittima».

Chi non è giovanissimo ricorderà che il periodo seguito a tali norme fu drammatico, con i familiari del sequestrato che protestavano perché venivano privati della possibilità di fare uso dei propri beni: è stata però la carta vincente. È vero, un conto è l’ordinamento interno di uno Stato come l’Italia, che è in grado di controllare il proprio territorio, un conto è muoversi all’estero, in aree ostili, avendo a che fare con autorità locali non sempre affidabili, comunque deboli. Nonostante questo, riesce difficile spiegare perché se una persona è sequestrata in Italia la prima risposta dello Stato è il blocco dei beni dei suoi familiari – una misura dura, che mostra un volto delle istituzioni in apparenza ostile -, e se invece è sequestrata fuori dai confini nazionali il medesimo Stato impiega sue proprie risorse per liberarla: il sistema andrebbe riportato a coerenza.

Va costruita una strada di necessaria cautela. Non ha senso oggi infierire su una ragazza giovane e provata, le cui scelte nei 18 mesi di prigionia è verosimile che siano state forzate. Ma per la onlus per la quale ella era presente nella zona del rapimento (“Africa Milele onlus”) il discorso è diverso. Sul Corriere della sera del 12 scorso Gianfranco Cattai, presidente di Focsiv, federazione di 87 onlus di cooperazione e volontariato internazionale, ha affermato che “nessuna delle nostre associazioni avrebbe fatto partire una ragazza sola e per giunta diretta in un Paese con tensioni interne come il Kenia”. Su questo, come su altri profili, rinvio al seguito di domani.

 

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