0
0
0
s2sdefault

“Quando l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l’impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità. […] È questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia […], che devono tutelare il diritto primario alla vita a partire dal suo concepimento fino al suo termine naturale”.

 

 

 

Con queste parole, nel 2002 la Congregazione per la dottrina della fede identificava uno dei punti nodali della partecipazione dei fedeli al dibattito politico nelle società democratiche: tema nei confronti del quale l’insorgere di “orientamenti ambigui e posizioni discutibili” aveva dimostrato l’opportunità di dedicare alcune chiarificazioni, sostanziate nell’apposita Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica.

Nonostante il tempo trascorso, i problemi denunciati dalla Congregazione sono tutt’altro che superati: circostanza non certo limitata al solo contesto italiano, ma comune a molte realtà politiche. Com’è noto, dibattiti particolarmente accesi sono sorti in ambito statunitense, sia in conseguenza dell’approvazione di legislazioni estremamente permissive nei confronti delle pratiche abortive con il sostegno di politici cattolici, sia in seguito all’elezione alla presidenza di un candidato cattolico che ha ugualmente sostenuto posizioni in contrasto con tale magistero. Al centro delle discussioni dell’episcopato locale si è quindi posta la questione relativa alla non ammissione di questi soggetti alla Comunione, che il can. 915 del Codex Iuris Canonici prevede non solo per gli scomunicati e gli interdetti, ma pure per “gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”.

Il significato di tale norma è tuttavia oggetto di molti fraintendimenti. Alcuni riguardano la natura stessa del divieto, spesso erroneamente qualificato come sanzione: al contrario, come spiega Giovanni Paolo II al n. 84 di Familiaris Consortio (con riferimento ai fedeli divorziati e risposati, ma enunciando un principio comune a tutti i casi analoghi), il mancato accesso alla Comunione eucaristica dei soggetti indicati al can. 915 discende dal fatto che “sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”. Altri derivano dalla commistione tra la norma in parola e il successivo can. 916, il quale ricorda come siano tenuti ad astenersi dal ricevere la Sacra Comunione coloro che sono consapevoli di essere in peccato grave.

Per non cadere in simili equivoci, conviene fare riferimento ad altri due testi che su questi profili hanno insistito con chiarezza: la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi del 2000 e il n. 37 della Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia del 2003. In quest’ultimo documento, dopo avere ricordato che “il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza” - precisazione relativa al principio enunciato al can. 916 -, Giovanni Paolo II prosegue affermando: “nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa. A questa situazione di manifesta indisposizione morale fa riferimento la norma del Codice di Diritto canonico sulla non ammissione alla comunione eucaristica di quanti ‘ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto’ ”. Allo stesso modo, il Pontificio Consiglio individua gli elementi dell’ultimo caso di cui al can. 915 in tre condizioni:

“a) il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare;

  1. b) l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale;
  2. c) il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale”.

Si rende così più comprensibile la distinzione tra le due norme. Il can. 916 si rivolge infatti direttamente a tutti quei soggetti che siano consapevoli di trovarsi essi stessi in peccato mortale, ricordando loro il conseguente divieto di comunicarsi al Corpo del Signore senza avere premesso la confessione sacramentale. Il can. 915, pur producendo ovviamente i propri effetti nei confronti dei fedeli, è invece indirizzato in primo luogo ai ministri del Sacramento, che sono fatti destinatari del divieto di ammettere i primi alla Sacra Comunione secondo una valutazione che ha per oggetto esclusivamente un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, prescindendo quindi da qualsiasi considerazione circa l’imputabilità soggettiva.

La rilevanza di tale diversità di prospettive emerge anche con riguardo ai ‘beni’ tutelati dal can. 915, tra i quali lo stesso n. 37 di Ecclesia de Eucharistia menziona la cura pastorale del buon ordine comunitario. Quest’ultimo profilo si riferisce alla necessità di prevenire i rischi di ‘scandalo’ nella comunità dei fedeli: termine utilizzato, secondo il senso proprio illustrato al n. 2284 del Catechismo, per indicare “l’atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male”. Tale accezione è confermata dalla Dichiarazione del Pontificio Consiglio, che spiega come lo scandalo continui a sussistere anche nel caso in cui “siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli”.

Alla luce di tali elementi, è perciò possibile trarre alcune considerazioni in merito al caso in esame. Quanto alla gravità del comportamento, se l’inequivocabile condanna dell’aborto nel magistero della Chiesa non richiede specificazioni, indicazioni sufficientemente chiare si riscontrano anche riguardo alla sua promozione per via legislativa: non solo da parte della Congregazione per la dottrina della fede nella Nota dottrinale - che al riguardo cita il n. 73 di Evangelium Vitae - e nella precedente Dichiarazione De abortu procurato del 1974, ma anche nello stesso Catechismo, in modo particolare al n. 2273 e, con riferimento al tema dello scandalo, al n. 2286. Ancora più esplicite le osservazioni contenute nel memorandum Worthiness to Receive Holy Communion del 2004 dell’allora cardinale prefetto Joseph Ratzinger, nel quale il caso di “a Catholic politician […] consistently campaigning and voting for permissive abortion and euthanasia laws” viene indicato espressamente come un’ipotesi di applicazione del can. 915.

Quest’ultima precisazione, riferendosi alla stabilità della condotta, fornisce informazioni utili anche a proposito del carattere della ‘perseveranza ostinata’, che nel caso di specie deve sostanziarsi in una posizione politica portata avanti in modo sistematico: circostanza che, pur complicando molto il compito del sacerdote sul piano pastorale, rende amaramente più semplice la sua valutazione su quello giuridico. Circa l’ultima condizione di cui al can. 915, nessun problema interpretativo sembra essere sollevato dal caso dei fedeli impegnati in contesti istituzionali ed elettorali, essendo il primo per sua natura manifesto e il secondo attivamente indirizzato a raggiungere il più ampio pubblico possibile: cosicché si potrebbe dire che maggiore è la fortuna politica del soggetto in questione, minori sono i dubbi che si pongono riguardo a questo requisito (per una più completa trattazione LEGGI QUI).

 

Forum Famiglie Puglia