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17 aprile 2021, Roma. Ore 17. Piazza del Popolo e mille bauli. C’erano tutti: attori, cantanti, tecnici, organizzatori di eventi. Tutti i lavoratori dello spettacolo riuniti, nuovamente, dopo il 10 ottobre 2020.

 

 

 

L’obiettivo? Manifestare per i propri diritti. Quelli stessi diritti che oramai da più di un anno il governo nega, togliendo al lavoro discontinuo ogni valore e importanza.

“Bauli in piazza” è un’iniziativa che riunisce l’associazione di attori e attrici unita ed il coordinamento “La musica che gira”. Un atto coraggioso, ma nemmeno tanto. Perché lottare per avere un riconoscimento a livello nazionale (e internazionale) della propria dignità professionale sembra una reazione naturale alle vicissitudini dell’ultimo anno. La provocazione lanciata da “Bauli in piazza” è riassunta nello slogan, ben pensato, “Governo, ora ci vedi?”. L’invisibilità del mondo dello spettacolo nelle ultime azioni governative è stata basata sulla concezione che si tratti di un settore del tutto sacrificabile. Come se la cultura non fosse necessaria alla sopravvivenza. Un’idea che manda all’aria anni di studi e di ricerche sull’evoluzione delle civiltà e, perché no, di storia economica, influenzata da una mentalità ancestrale secondo cui un artista vale meno e dona meno alla società di un qualsiasi altro lavoratore. Peccato che a volte ci si dimentica che alle spalle di un artista - anzi, accanto - ci sono uomini e donne che rendono possibili eventi, produzioni cinematografiche e discografiche, proiezioni.

Mille bauli, in un’esibizione semplice ma efficace, hanno fatto sentire, in una delle più famose piazze d’Italia, la voce di tutti coloro che sembrano averla persa. E io, nel mio piccolo, mi sento una privilegiata. E approfitto del mio piccolo spazio per rendere giustizia a chi non ne ha.

Durante il mio primo concerto, ero nel passeggino. Dormivo, forse. Chi lo sa. Ne sono seguiti molti altri e non mi hanno mai stancata. Dopo anni di eventi musicali, ho accumulato una certa esperienza. Ho imparato la regola dei tappi delle bottiglie prima di entrare in un palazzetto, come raggiungere la prima fila del parterre in uno stadio e come scegliere il posto migliore all’interno di un teatro. Il teatro: ci andavo sola, anche per attori che non conoscevo. Era il mio momento. Mi sedevo su una delle poltroncine rosse- meglio se lo spazio era piccolo, intimo e poco dispersivo- e mi godevo il buio di un luogo che aveva imparato a memoria i miei respiri. Li aveva studiati, magari, mentre ero io ad essere lì sul palco, a prestare la voce alle parole scritte da qualcun altro o, addirittura, a un breve monologo nato dalla mia penna e dalla mia anima. Mentre ero dietro le quinte, a chiedermi quando sarebbe arrivato il mio turno e quando sarebbero finite le farfalle nello stomaco. Essere artisti o, allo stesso modo, spettatori, è come essere innamorati. L’attesa dell’incontro si manifesta in aspettative e fantasie persistenti fino all’inizio dello spettacolo. Le luci si spengono. È l’attimo più bello. L’apice di un’autentica emozione.

Ho creato e ho assistito alla presentazione delle creazioni di altri. Lo spettacolo è intrattenimento ed è cultura. È il sale di una civiltà che, altrimenti, non potrebbe crescere. Vedere relegato questo settore al ruolo di inutile accessorio a ciò che, secondo qualcuno, conta davvero, distorce la fiducia di tanti nei confronti di chi ha il compito di salvaguardare i diritti di tutti i lavoratori. Le riaperture previste a partire dal 26 aprile mostrano una luce in fondo al tunnel. È un passo, ma non è ancora abbastanza. Le perdite dell’ultimo anno del mondo dello spettacolo e le condizioni imposte dai decreti legislativi scoraggiano e sembrano allontanare la possibilità di un nuovo percorso. Serve camminare a testa alta e resistere.

Lasciamo che si spengano le luci, ma solo nel secondo che precede l’inizio di un concerto, di un film o di uno show.

 

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