Cambiamo la legge sui pentiti! Allo sconcerto dopo la scarcerazione di Giovanni Brusca, più d’un leader politico ha fatto seguire quest’imperativo; senza tuttavia indicare le modifiche da apportare. Provo a immaginarne un paio, con un cenno di storia.
La prima legge sulle collaborazioni mafiose è del gennaio 1991: dal 1980 i ‘pentiti’ godevano di benefici soltanto per il terrorismo. L’estensione alla mafia è voluta da Giovanni Falcone, che già prima del 1991 aveva sperimentato i vantaggi delle collaborazioni nel maxiprocesso a Cosa nostra: lì furono decisive le dichiarazioni di Buscetta e di Contorno. Del primo Falcone diceva che “prima di lui avevamo un’idea superficiale del fenomeno mafioso Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro”, e lo definiva “come un professore di lingue che permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti”.
I paletti
La legge del 1991 apre una stagione nuova: da quel momento, contare sulle informazioni provenienti dall’interno delle cosche consente all’autorità giudiziaria grande efficacia operativa. Il suo uso massiccio determina però abusi e distorsioni: quello che avrebbe dovuto restare uno strumento di indagine, in troppi processi è diventato lo strumento. Questo ha motivato nel 2001 una riforma, ancora in vigore, per razionalizzare i decrementi di pena e stroncare le collaborazioni fasulle.
Per rendere meno gravoso il costo sociale e la tollerabilità etica di mostri che tornano in libertà, si potrebbe cominciare col far rispettare una delle norme introdotte da quella riforma, l’art. 16 quater. Esso impone all’aspirante collaboratore di dichiarare: a) tutti i temi della collaborazione entro 180 giorni dal momento in cui inizia a parlare, per scongiurare le c.d. ‘dichiarazioni a rate’ e la contrattazione, che in precedenza condizionava le informazioni ai benefici; b) i beni da lui acquisiti con la propria attività criminale, pur se intestati fittiziamente ad altri, al fine di evitare che il ‘pentimento’ costituisca lo strumento, una volta tornato libero, per godere del provento dei delitti commessi.
Le colpe
Chi non adempie a questi obblighi non dovrebbe essere ammesso nel programma di protezione o, se ammesso, lo vedrebbe revocato, insieme con i benefici. Con questa norma Brusca non sarebbe mai entrato nel programma, perché certamente per più di 6 mesi ha dichiarato il falso e ha depistato, e solo in un secondo momento ha deciso di fare sul serio.
Uso il condizionale perché quest’articolo è largamente disatteso: la giurisprudenza penale ha ben presto ritenuto utilizzabili nel processo quanto dichiarato oltre i 180 giorni, sostenendo che la mancata osservanza del termine comporti solo effetti sulla prosecuzione della protezione; qualche Tar ha poi vanificato anche le ricadute amministrative dell’inadempimento, poiché ha annullato i decreti di revoca del programma nelle ipotesi di sforamento del termine. Qui non si tratta di ‘cambiare la legge’, ma di renderla effettiva, con l’aggiunta di espressioni che ne impediscano l’aggiramento.
Gli interventi
Una modifica vera potrebbe invece interessare l’art. 192 del codice di procedura penale, che fa utilizzare come prova le dichiarazioni del collaborante, purché accompagnate da ‘altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità’. Nell’applicazione, anche in tal caso giurisprudenziale, gli ‘altri elementi’ consistono talora nelle dichiarazioni di altri collaboranti: in tal modo, se i ‘pentiti’ Tizio e Caio vogliono inguaiare Sempronio, concordano quanto dovranno dire, e le loro dichiarazioni si riscontreranno reciprocamente. Sarebbe sufficiente aggiungere che gli ‘altri elementi’ non consistono nelle dichiarazioni di ulteriori ‘pentiti’ per spingere a collaborazioni più concrete e autentiche.
Sono solo un paio di ritocchi: non scardinano il sistema, ma potrebbero renderlo meno indigesto.
(da Libero del 4 giugno 2021)