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Nei giorni scorsi, mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, ha incontrato Papa Francesco al quale ha consegnato il glossario edito da Lev “Piccolo lessico del fine vita” di cui ha firmato l’introduzione.

 

 

Che cosa afferma il magistero della Chiesa in materia? C’è stato qualche cambiamento? A poche settimane della sentenza della Corte costituzionale depositata lo scorso 18 luglio (LEGGI), mentre è acceso il dibattito sul suicidio assistito, lo chiediamo al bioeticista Lucio Romano, docente presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale, Sezione San Tommaso d’Aquino, e coordinatore dell’Osservatorio di bioetica della diocesi di Napoli.

Professore, qual è la posizione della Chiesa sul fine vita?

Non c’è nulla di nuovo. Il magistero della Chiesa, espresso in diversi documenti e pronunciamenti, rimane costante e si potrebbe riassumere, in estrema sintesi, nel “no” assoluto ad eutanasia e suicidio assistito e, al tempo stesso, nella contrarietà ad un’ostinazione irragionevole dei trattamenti che condurrebbe al cosiddetto accanimento clinico. L’ostinazione irragionevole dei trattamenti, vale a dire sproporzionati, non risponde a criteri di liceità né biomedici né bioetici, oltreché giuridici. Ma non proseguire nell’ostinazione irragionevole non significa abbandonare il paziente. La Chiesa è da sempre favorevole alla proporzionalità dei trattamenti e all’accompagnamento del malato attraverso le cure palliative e la terapia del dolore, vero antidoto alle richieste di morte.

Qual è il fondamento del suo magistero in materia?

Al di là delle riflessioni di ordine teologico, la posizione della Chiesa corrisponde ad un’antropologia personalista in cui l’elemento fondamentale è il rapporto di relazione tra paziente, medico e tutti coloro che sono coinvolti nell’attività assistenziale. Una relazione di cura che si configura come alleanza in cui la fiducia di un paziente incontra la coscienza di un medico. D’altra parte, il riferimento al magistero della Chiesa richiama anche la responsabilità e l’obbligatorietà su un altro versante, cosiddetto laico, di un intervento del Legislatore, ripetutamente richiamate anche dalla Consulta, che tenga conto dei fondamenti, sì, del diritto costituzionale e della nostra Carta, ma pure di quella obbligatorietà della cura ribadita in ripetute sentenze da parte della stessa Corte costituzionale.

Trattamenti come l’idratazione e la ventilazione assistita: quando è possibile e lecito interromperli?

Anche in questo caso il magistero della Chiesa è molto chiaro; nei suoi pronunciamenti viene costantemente ribadito che

il fondamento del ricorso ai trattamenti di sostegno vitale (Tsv) è il criterio della proporzionalità. Essi possono essere sospesi nel momento in cui non corrispondono più alla finalità per la quale potevano essere attuati e laddove, da parte del paziente stesso, si recepisca una sproporzione del trattamento medesimo. Io direi di usare quel criterio di proporzionalità consistente nel principio di giustificazione etica e giuridica dell’atto medico che risulta lecito quando i benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti. Tenendo tuttavia conto che, per quanto un trattamento possa essere clinicamente appropriato, potrebbe risultare sproporzionato per la persona malata che lo ritenesse troppo gravoso per le circostanze in cui si trova. Occorre insomma un bilanciamento nella relazione di cura in cui la fiducia del paziente e la coscienza del medico si incontrano.

Nella sentenza 135/2024 la Corte costituzionale “estende” il concetto di Tsv.

Non li limita più esclusivamente alla nutrizione e all’idratazione artificiale, ma include tutti quei trattamenti la cui sospensione - questo è il passaggio delicato dal punto di vista bioetico - porterebbe la persona alla morte in un breve lasso di tempo. Mentre la Corte costituzionale richiama il criterio prognostico temporale nell’ambito dei Tsv, su altro versante il trattamento di sostegno vitale è fondamentale nella misura in cui risponde ad un criterio di accettazione da parte del paziente stesso.

Oggi in Parlamento ci sono cinque proposte di legge sul fine vita. Nel “Lessico” si parla di “mediazioni sul piano legislativo”. Si potrebbe rientrare nell’ambito delle cosiddette “leggi imperfette”? 

È evidente che qualsiasi legge non potrà mai corrispondere perfettamente al sentire morale di una componente o dell’altra a livello generale. La dimensione della legge è sicuramente un punto di mediazione. Ritengo tuttavia che, dopo le ripetute sentenze della Corte costituzionale, il Parlamento, per quanto abbia un’autonomia riconosciuta in quelle che sono le prerogative del Legislatore, non potrà discostarsi di molto dai criteri indicati dalla Corte, sia con la sentenza n. 242/2019 sul caso dj Fabo, sia con la recente pronuncia di pochi giorni or sono.

 

 

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