Su Google map i chilometri da Berehove, dal confine ucraino-ungherese, a Odessa sono 1.010. Sono 16 ore di viaggio, passando per i Carpazi, i villaggi e le immense campagne di grano popolate di cicogne.
Procedono così tutti incolonnati sulla strada i pulmini con gli aiuti umanitari. È l’iniziativa “Stopthewarnow” partita il 29 agosto scorso da Gorizia con la mission finale di raggiungere la città di Mykolaiv. A bordo 50 volontari italiani. Sul cofano una scritta che genera curiosità nella popolazione locale: humanitarian aid. Una signora si avvicina e in italiano dice: “Grazie per quello che fate. Qui l’aiuto è importante”.
Ma il viaggio è anche imprevisto. Ad un certo punto la strada cambia: non c’è più l’asfalto e per 33 chilometri i pulmini sono obbligati a procedere lentamente su strada sterrata. Due mezzi bucano le ruote. Il tempo passa. Il viaggio inesorabilmente si allunga. Cala la notte quando la carovana raggiunge Odessa. E qui la notte è di un buio profondo. Essere in guerra significa anche questo. Le notti non hanno luce. Ma prima di entrare in città i volontari si imbattano in un ulteriore imprevisto: al primo check point la carovana riesce a passare ma al secondo stop di controllo, i militari dopo aver ripetutamente controllato i documenti, impongono il dietro front. Non c’è margine di trattativa. Si entra in città solo dopo le 5 di mattina quando finisce il coprifuoco.
“Costruire la pace è sicuramente qualcosa di impegnativo e anche di faticoso”, dice Giampiero Cofano, il capo delle delegazione e segretario generale della Comunità Papa Giovanni XXIII che ha gestito per conto delle 175 associazioni e movimenti l’organizzazione della carovana. “E il viaggio in un certo senso è una sorta di training che educa alla non violenza e alla pazienza di fronte agli imprevisti e alla mancate comodità. Da una parte si sperimenta su se stessi questo percorso e dall’altra si costruisce il gruppo. Un’azione come la carovana della pace ha bisogno di essere calata con molta delicatezza soprattutto nel contesto che incontreremo nei prossimi giorni. Questo viaggio serve a costruire relazioni, amicizia e fiducia. Sembrano giorni interminabili di viaggio e invece no, sono giorni che i veri costruttori di pace mettono in agenda”.
Questa mattina i volontari faranno l’ultima valutazione dei rischi rispetto alla situazione in particolare di Mykolaiv e della strada che dovranno percorrere. Ieri la città è stata fortemente bombardata e anche il ponte che la collega a Odessa è stato preso di mira dai missili russi. “Se le notizie ci confermano che le strade sono aperte prenderemo la direzione Mykolaiv per portare aiuti umanitari e incontrare questi nostri fratelli che ci aspettano. Ci saranno anche le autorità civili”. A Mykolaïv, da tre mesi vivono i volontari italiani della Giovanni XXIII. “Con la.nostra presenza – racconta Cofano – vogliamo portare semi di pace. Certo, non siamo negoziatori, non siamo coloro che risolveranno il problema ma abbiamo detto I care, ci interessa spendere la nostra vita per un sogno più grande. Ci interessa andare a stringere le mani e abbracciare queste persone che con noi nei rifugi piangono e pregano. Essere lì con loro è il seme della pace più importante che noi oggi siamo in grado di portare”.
Tra i partecipanti a questa nuova carovana c’è anche mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva dele Fonti e presidente di Pax Christi, in rappresentanza dei Vescovi italiani. “Siamo qui - dice - per stare accanto a chi soffre, a chi nella sofferenza spera. Siamo qui per soffrire e sperare insieme a loro”. E riflettendo sulle atrocità della guerra che non cessano, aggiunge: “vedendo sventolare le bandiere della pace in questi giorni dopo sei mesi di guerra mi sono accorto che i loro colori si sono sbiaditi. È veramente duro sperare mentre si radica sempre di più questa logica che vede soltanto nella guerra nelle armi nel conflitto la soluzione dei problemi. È una constatazione triste e amara. Sappiamo di essere nella notte ma sappiamo anche porci la domanda: quando verrà l’alba? Noi lavoriamo perché questa alba di pace venga quanto prima”. Domani il vescovo incontrerà la gente di Mykolaiv: “Più che le parole se mi sarà possibile vorrei portare un abbraccio di fraternità. Credo che le persone che andremo ad incontrare non hanno bisogno di molte parole ma di gesti di solidarietà e vicinanza”.
“16 ore chiusi in un pulmino. Chi in 5, chi in 6, noi in 7. 7 persone e un muro di scatoloni colmi di ogni bene a farci compagnia, dai biscotti alla pasta, dai cerotti ai saponi. Eppure, la vera destinazione sono proprio queste ore, perché ci insegnano che stare insieme, stare vicini, non è mai semplice. nonostante le difficoltà di questo lungo viaggio, però, ci sentiamo uniti verso un unico obiettivo, con lo sfondo di questa bandiera gialla e azzurra che è il grano e il cielo d’Ucraina.
“Non potendo porre fine alla guerra oggi stesso con la nostra sola volontà, abbiamo scelto (con umiltà) di stare un po’ più scomodi, di condividere un pezzo di quel dolore, anche mettendo, per quanto e come possibile, i nostri corpi vicino a quello di chi, oggi, sta tra i sommersi. Non si tratta di eroismo, ma di rappresentare quell’umanità alternativa possibile, agli occhi tanto degli Ucraini, che oggi vedono crollare il frutto dei loro sforzi costruttivi, quanto di tutti gli altri, affinché all’orrore della guerra sopravviva almeno la speranza di un futuro differente”. (Simone Poté, ACMOS)
“È una situazione tanto complessa quanto di difficile interpretazione e nessuno qui è esperto di geopolitica. La verità è che non sappiamo del perché, del cosa e del come sia scoppiata questa guerra e non sappiamo di come quando tutto ciò potrà finire. L’unica cosa che sappiamo è che amiamo questa gente che non ha più nulla e amiamo anche quei giovani russi messi qui a morire senza sapere neanche il perché…siamo qui perché amiamo l’essere umano nella sua totalità…e lo amiamo perché lo stesso padre che ci ha creati, ci ama di amore infinito”. (Pulmino di don samuele Alberto Giulio e Pino)
“Il senso più autentico di questo viaggio, che ha visto la partecipazione di persone provenienti da tutte le parti d’Italia, è la testimonianza di una condivisione piena con chi soffre la tragica esperienza della guerra, nella consapevolezza che il silenzio delle armi sia l’unica strada percorribile”.