Oggi, nel giorno del compleanno di Papa Francesco, ai lettori di Portalecce, il dono esclusivo del testo integrale dell’omelia pronunciata dal card. Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi durante la messa per l’intitolazione del Dea di Lecce a don Tonino Bello (LEGGI).
La terza domenica di Avvento conserva, come nell’uso antico, una denominazione: Gaudete, che è un invito alla gioia; un titolo che ripete l’invito di San Paolo, udito dalla seconda lettura: «Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti». Questa parola, gioia, nel linguaggio cristiano ha un significato molto profondo e anche nella nostra lingua è ben diversa dalla parola allegria. Questa è piuttosto una forma esteriore; la gioia, invece, è qualcosa che abita nella interiorità. Ci chiediamo, allora: di quale gioia si tratta? Siamo, infatti, in quella che da un filosofo e psicanalista argentino (Miguel Benasayag) è stata chiamata epoca delle passioni tristi. L’opera è di più di dieci anni fa, ma è ancora «stagione triste», la nostra? Nel maggio scorso su di un quotidiano nazionale di grande tiratura, è stata pubblicata l’intervista a un noto giovane cantautore che diceva: «Essere giovani oggi è tremendo. Perché sei senza punti di riferimento». È una questione molto seria, questa.
Nel Vangelo che oggi abbiamo ascoltato c’è una domanda che si ripete per tre volte: «Che cosa dobbiamo fare?». Potremmo dire che è pure questo l’interrogativo della inquietudine, in questa epoca delle stagioni tristi. Che cosa dobbiamo fare? Non che cosa dobbiamo scrivere, o pensare, o immaginare. Sembrerà strano, ma nella storia cristiana il «fare» è più importante! Anche di Gesù si dice che cominciò a fare e a insegnare(At 1,1). Nella vita ci sono insegnamenti che vengono dall’agire e non dalle parole!
Al Battista, la domanda «che cosa dobbiamo fare?» giunge da tre diverse categorie di persone. Ecco, brevemente, le risposte: alle folle che glielo domandavano, il Battista suggerisce un’azione, il donare: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».; ai pubblicani, poi - gli ebrei al servizio del potere occupante - Giovanni suggerisce una virtù: «siate giusti», che vuol dire di operare secondo giustizia. C’è una frase latina che dice così: opus iustitiae pax, il frutto della giustizia è la pace. Non c’è pace, né dentro il cuore dell’uomo, né tra i popoli se non c’è giustizia, che è pure la lealtà nelle relazioni umane. Ci sono, infine, i soldati e anche loro domandano: «cosa dobbiamo fare?». A loro il Battista propone: «Siate delle persone leali, oneste». Ecco tre risposte: donare, agire secondo giustizia ed essere delle persone leali.
Ecco, nel richiamo al vangelo io mi fermo qui, carissimi fratelli e sorelle, e vi saluto tutti a cominciare dall’arcivescovo di questa Chiesa con il suo coadiutore e gli altri confratelli vescovi, che vedo con piacere e pure mons. Vito Angiuli, il vescovo della Chiesa che custodisce il sepolcro e la memoria di don Tonino Bello. Credo che queste tre virtù: del dono, della giustizia, della ricerca della pace e della lealtà possiamo ritrovarle anche in don Tonino Bello, un cristiano che oggi la Chiesa ci propone come modello di virtù. Il titolo di «venerabile», infatti, che la Chiesa ufficialmente gli ha riconosciuto qualche anno fa, significa che è meritevole di essere imitato e onorato. Se la Chiesa fa dei processi di canonizzazione e di beatificazione non lo fa come se si dovesse intitolare una strada a qualcuno, o erigergli monumento, ma perché quella persona vada imitata. Anche la dedica a lui di questa struttura sanitaria tanto delicata è molto significativa.
Mons. Antonio Bello io l’ho conosciuto di persona quand’era in piena salute. Era il sacerdote responsabile del Seminario di Ugento-Santa Maria di Leuca e negli anni ‘60/’70 del secolo passato i seminaristi ginnasiali di quella diocesi frequentavano il seminario di Lecce. Don Tonino veniva periodicamente a trovare i suoi seminaristi e loro raccontavano di quel loro sacerdote: li educava certamente, ma pure giocava con loro, nuotava insieme con loro, era vigoroso e forte... Poi don Tonino giunse a Molfetta come vescovo di quella Chiesa e scherzando – noi del Seminario Regionale – gli dicevamo che se voleva parlare in dialetto leccese, doveva venire da noi, dove c’eravamo tanti salentini. Poi don Tonino cominciò a star male; ebbe i primi problemi di salute ed io, quando andrai a trovarlo all’ospedale di Gagliano del Capo dov’era ricoverato, gli dissi: «don Tonino, perché ne sei venuto qua? Perché non sei andato, per esempio, al Policlinico Gemelli di Roma?». Egli mi rispose: «No. Il Gemelli è una struttura per i ricchi»; ma poi aggiunse: «Qui mi trovo a mio agio, perché c’è mio fratello». Lo capii: nella malattia aveva bisogno di sentirsi sereno! Poi la situazione cominciò a complicarsi.
C’è un libro, di cui penso che voi medici avete sentito parlare, il cui titolo non è proprio simpatico: La morte e il morire, scritto da Elisabeth Kübler-Ross, ritenuta tra le fondatrici del movimento dell’hospice moderno. Trattando di quella malattia per la quale si dice ai parenti: «non c’è più niente da fare, la situazione è molto grave…», questa studiosa diceva che in essa ci sono fasi diverse. C’è la prima, che è quella della meraviglia, dello stupore...: «Ma come, proprio a me capita questo?». C’è poi la fase della ribellione: «Come faccio a uscire da questa malattia?». Anche don Tonino ha attraversato questa fase. Dopo, però, se la situazione di crisi e di dibattito interiore è gestita bene, c’è la fase lenta, ma sempre più profonda dell’accettazione, dell’accoglienza. Per un cristiano questo è trasformare in dono qualcosa che si subisce. Anche questa fase Mons. Bello l’ha vissuta ed è stata l’ultima della sua vita, quella che lo ha messo sotto gli occhi non soltanto di una Chiesa, di una Regione di una organizzazione cattolica com’è Pax Christi, ma sotto tanti e tanti altri occhi. Così si è incominciato a capire chi era davvero don Tonino Bello.
Le fasi della storia di mons. Antonio Bello le ho ricordate in questo luogo perché credo che siano importanti come testimonianza e come coraggio per gli altri. So che ci sono responsabili e medici che mi ascoltano. Qualche anno fa, quando negli ultimi anni del mio ministero episcopale nella diocesi di Albano era cominciato il Covid, parlando ai miei fratelli sacerdoti ricordai loro una parola molto importante: la parola cura. Questa parola è consueta qui, poiché gli ospedali non sempre possono guarire, ma sempre possono curare. La stessa parola: cura è importante anche per noi preti, che parliamo della «cura delle anime». Lo feci perché in quelle circostanze avevo avuto modo di leggere il libro di un filosofo, Umberto Curi, dal titolo: Le parole della cura. Medicina e filosofia. Qui si legge che questa parola - in greco therapeia - inizialmente intendeva il servizio, il mettersi in ascolto dell’altro ed era funzione di amicizia, dell’avere a cuore, premura… Con il passar del tempo, poi, l’ammalato è divenuto il paziente, non è più l’amico; oggi, infine, il paziente è diventato il cliente. Ed io dicevo ai miei preti: «stiamo attenti» che non accada così anche a noi: le persone con le quali siamo in relazione non siano i nostri clienti e neppure i nostri pazienti, ma i nostri amici. Credo che don Tonino possa esserci di esempio in tutto questo.
Un’ultima cosa desidero aggiungere, soprattutto per coloro che mi domandano: «Adesso che è venerabile, quando diventa santo?», A questi io rispondo che in don Tonino ci sono due volti: quello che è stato sotto gli occhi di tutti e l’altro che era possibile scoprire soltanto andando a trovarlo a casa. Si scopriva così che il suo tavolino di studio era nella cappella e che gran parte delle notti egli le passava pregando. Se don Tonino ci è modello nell’ordine della fraternità e della pace, non dimentichiamo che è stato prima di tutto uomo di preghiera. Se ha lavorato per la pace, se ha viaggiato per essere vicino agli afflitti, è accaduto perché è stato un uomo di preghiera. Per la pace lavorano, grazie a Dio, pure tante altre persone; la forza interna di don Tonino, però, è stata la preghiera ed è questa la via che anche noi dobbiamo percorrere prima di fare la domanda: «Quando diventa Santo?». Grazie per avermi invitato a questo incontro.