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I miei nonni materni non avevano più l’abitudine di uscire insieme per passeggiare in città. Con l’avanzare dell’età, molte abitudini si cancellano naturalmente.

 

 

Però l’1 maggio, con un garofano rosso appuntato sull’abito o tenuto in mano, quasi fosse un trofeo, contribuivano ad affollare il corteo che attraversava le vie del centro di Lecce, in occasione della Festa del lavoro.

Soltanto chi aveva vissuto le nefaste conseguenze di un evento bellico - e loro ne ricordavano ben due di guerre, quella del 1915-18 e l’altra 1939-45 - poteva aderire con ineguagliabile e profondo spirito di comunanza, ricordando momenti in cui la disoccupazione, insieme alla sua immediata conseguenza, l’indigenza, assunse i contorni di uno spietato flagello. Il quale, nella coscienza popolare, lasciò una traccia; il solco provocato, non del tutto colmato, suggeriva di dare un senso alla manifestazione: partecipandovi.

Se si festeggia ancora oggi a Lecce e nel Salento non so. Se con lo stesso spirito? Neanche questo so. Altri e diversi motivi e sentimenti lo consiglierebbero. Eccome! In ogni caso, si rinnoverebbe un evento risalente al lontano 1889 quando, in tutto il mondo, dal movimento socialista fu proclamata la Festa del lavoro per ricordare le vittime di un comizio sindacale, avvenuto nel 1886 allo Haymarket Square di Chicago: mentre gli oratori parlavano alla numerosissima folla dei diritti ottenuti, una bomba scoppiò tra la polizia dando inizio a scontri conclusisi tragicamente.

Perduta la sua connotazione ideologica, la Festa del lavoro si è trasformata nella festa dell’operosità e la Chiesa, nella figura di Pio XII, nel 1956 l’ha consacrata al santo lavoratore per eccellenza: San Giuseppe artigiano.

Di tutt’altro genere quanto segue. Le comunità rurali di un tempo, il 1° maggio rispolveravano antichissime usanze - debolmente sopravvissute al giorno d’oggi - con cui, celebrando il ritorno della primavera, ravvisavano un’immagine simbolica dell’amore. Nottetempo, l’innamorato metteva un ramo fiorito, il “maggio” o il “maio”, dinanzi all’uscio della donna corteggiata. Alle prime ore dell’alba le cantava una serenata in cui spesso la fanciulla era paragonata alla rosa, al giglio e così via.

Vi era pure chi, evidentemente respinto, coglieva l’occasione per esprimere sentimenti opposti come l’odio, il disprezzo, la gelosia, ecc. ecc.  La consuetudine si appellava “Calen di maggio” o “Calendimaggio”.

Nel Salento dove vi erano perlopiù “case a corte”, si svolgeva la tradizionale festa de lu màsciu, particolarmente sentito a Gallipoli, Cursi, Nardò. Nella Grecìa salentina, invece, l’innamorato dipingeva un bel fiore sulla porta della fanciulla desiderata e spargeva di petali di rose tutto il cortile della casa.

 

 

 

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