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Portalecce volentieri ripropone l’artico apparso domenica scorsa sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” a firma del vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, mons. Vito Angiuli.

 

 

 

La tragedia bellica che si sta consumando nel cuore dell’Europa richiama la terribile catastrofe della “soluzione finale” attuata nella stessa zona.

Primo Levi, avvertendo il bisogno irrinunciabile di raccontare e far partecipe l’intera società della spaventosa esperienza vissuta nel campo di concentramento di Monowitz, lager satellite del complesso di Auschwitz, tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947, scrisse la famosa opera “Se questo è un uomo”.

La questione posta da Levi rappresenta la grande domanda culturale che si agita da decenni nel complesso dibattito antropologico contemporaneo e che interpella congiuntamente la società civile e la Chiesa, la scienza e la filosofia. Sono molti i fattori che invitano a interrogarsi sulla “questione antropologica”: Auschwitz, il disastro ambientale, il fenomeno migratorio, il paventato rischio di “guerre nucleari” e il sempre più affermarsi della “guerra cibernetica”, con le conseguenze economiche, sociali e umanitarie che ne derivano.

Tutti questi fattori hanno reso ancora più evidente che la posta in gioco è l’uomo stesso, la sua identità più profonda, il senso del suo esistere, il futuro della specie umana. Se poi si aggiunge la “trasmutazione di tutti i valori etici” (eutanasia, gender, fluidità sessuale, maternità surrogata ecc.) che si va operando in modo particolare nella cultura occidentale il quadro è completo. La lapidaria frase di M. Foucault chiarisce i termini del problema: «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima»1.

La drammaticità di questa questione è stata segnalata nel 2011 da un gruppo di pensatori tra cui Vacca, Tronti, Barcellona, Possenti. In un libro collettaneo, essi lanciarono l’allarme sulla “emergenza antropologica” e proposero una “nuova alleanza tra credenti e non credenti” per affrontare insieme un tema tanto delicato, quanto decisivo per il futuro dell’umanità.

Il cambiamento antropologico in atto, infatti, non riguarda aspetti secondari, ma il fondamento stesso della vita umana. Si sta facendo strada un nuovo modello di uomo. Il crollo delle grandi ideologie, avvenuto nel “secolo breve” (qualcuno ora parla del “secolo lungo”), ha messo in bella mostra la crisi della visione e del progetto umanista. Il celebre “Uomo vitruviano” di Leonardo da Vinci, inteso come un essere armonico e proporzionato, in cui si fondono, con un sapiente equilibrio, arte e scienza, creatività e rigore, sembra essere passato di moda, a fronte di un altro modello che si va costruendo nel presente e che si ritiene di poter manifestare in tutta la sua rilevanza nel futuro.

Dopo l’annuncio nietzschiano dell’Oltre-uomo (Übermensch), la critica post-metafisica di Heidegger (cfr. Lettera sull’umanismo) e l’analisi dell’epistemologia delle scienze umane di Foucault (cfr. Le parole e le cose), la visione dell’uomo come soggetto raziocinante, autosufficiente e completo, distinto dal mondo animale, vegetale e inorganico, sembra essere entrata irrimediabilmente in crisi.

La nuova prospettiva prende il nome di “postumanesimo”, termine introdotto per la prima volta da Jeffrey Deitch, nel catalogo di una mostra che si tenne a Losanna nel 1992. Da neologismo usato in ambito artistico, il termine è stato assunto come paradigma e chiave di volta per esprimere la convinzione che saremmo di fronte a una nuova idea di uomo non più legata alle dicotomie del pensiero tradizionale (corpo-anima, materia-spirito, interno-esterno, etc.), ma aperto a forme complesse di ibridazione che si svilupperebbero più come un processo che come una condizione. Dal manifesto del postumano stilato da Robert Pepperell nel 1995, apprendiamo che «oggi gli uomini non sono più la cosa di maggior importanza nell’universo»2.

Postumano vuol dire superamento dei limiti biologici, neurologici e psicologici, insiti negli esseri umani per effetto del processo evolutivo e proposta di una soggettività in continua ridefinizione di se stessa, capace di ospitare elementi della sfera non-umana, come quelli contenuti nelle “soggettività nomadi”3 o nell’“organismo cibernetico”4.

Nel 1927, a Londra presso l’editore Benn, il biologo Julian Huxley nel libro Religion without Revelation coniò il vocabolo transhumanism. Quarant’anni dopo, nel 1998, su impulso di Nick Bostrom e David Pearce, la World Transhumanist Association (WTA), divenuta poi la Humanity Plus con la sigla H+, assunse il neologismo huxleyano come vessillo di un movimento che si prefigge di configurare l’evoluzione della condizione umana attraverso le risorse delle nuove conquiste scientifiche. In questa prospettiva si ritiene che la biologia molecolare, le nanotecnologie e le neuroscienze opereranno un passaggio dal “progetto uomo”, abbozzato dalla natura, a un miglioramento e a un accrescimento delle sue potenzialità grazie all’intervento (non più curativo, ma migliorativo) della medicina e della tecnologia.

I due vocaboli, postumanesimo e transumanesimo, formano così un contrappunto armonico: il transumanesimo rimanda a un progetto scientifico, mentre il postumanesimo è la versione filosofica, sulla base di una visione globale, segnata persino da ipotesi escatologiche. Il transumanesimo indica la transizione dalla condizione umana a quella postumana. Il postumanesimo propone il pensiero della differenza.

In altri termini, secondo Ray Kurzweil l’umanità è ormai avviata verso la cosiddetta “singolarità tecnologica”, frutto di una rapidissima ascesa dell’intelligenza artificiale e della sua fusione con quella umana. Questa fusione, secondo Kurzweil, dovrebbe realizzarsi intorno alla metà del XXI secolo e più precisamente nel 2045, attraverso un’alterazione profonda e definitiva non solo delle abitudini di vita, ma dello stesso corpo umano, e il superamento dei suoi tradizionali limiti, compresi l’invecchiamento e la morte. «Arriveremo al punto in cui il progresso tecnologico sarà talmente rapido da essere incomprensibile per l’intelletto umano non incrementato. Quel momento contrassegnerà la “singolarità tecnologica”6.

Appare evidente che la visione trans/postumanistica si concentra sull’enorme potenzialità della scienza e della tecnica di modificare i dati biologici umani, senza però porsi interrogativi sulle ricadute etiche e le implicazioni socio-esistenziali. Ciò che occorre, invece, è elaborare premesse teoriche che sappiano criticare la pura e semplice pratica e i suoi relativi esiti fisiologici. In questo senso, un’indicazione suggestiva viene dalla riflessione di Edgar Morin, secondo il quale «ciò che muore oggi, non è la nozione di uomo, ma una nozione insulare dell’uomo, isolato dalla natura e dalla propria natura; ciò che deve morire è l’auto-idolatria dell’uomo, che si ammira nell’immagine convenzionale della propria razionalità»7. In questa prospettiva, torna utile richiamare la visione dell’humanum racchiusa nella fede cristiana, per la sua ricchezza di virtualità e di apertura alla relazione e all’alterità, quale visione compensativa rispetto alla straripante egemonia tecnologica presente nell’attuale dibattito antropologico e culturale.

1 M. Foucault, Le parole e le cose (1966), tr. it. Rizzoli, Milano 1978, pp. 413-414.

2 R. Pepperell, The Post-human condition, Intellect Book, Exeter 1995, p. 180.

3 Cfr. R. Braidotti, Postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014.

4 Cfr. Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, settembre 1999.

5 Cfr. R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Maggioli Editore, Apogeo Education, 2008.

6 Intervista a R. Kurzweil, http://www.estropico.com/id289.htm.

7 E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos'è la natura umana?, Mimesis, Milano-Udine 2020, parte sesta.

 

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