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E c’è ancora chi si strappa le vesti. Come se il fenomeno del cosiddetto “populismo” non avesse le radici ben radicate in quelle forme diffuse di “civismo” che - seppur in forme molto più moderate della moda in voga del ‘cavalcare l’onda’ della protesta - nelle democrazie dei piccoli comuni che scelgono i sindaci e le amministrazioni comunali non si fossero già diffuse a macchia d’olio senza che l’elettorato ci faccia più caso.

E che cos’è il contratto di governo tra Lega e 5Stelle se non la prova di confluenze su programmi/interessi (leciti, ovvio) che sulla carta nessuno avrebbe mai pronosticato?

In tanti si scandalizzarono quando a Lecce Alessandro Delli Noci prima prese le distanze dalla nomenclatura storica del centrodestra salentino per poi “fidanzarsi” con il centrosinistra di Carlo Salvemini e vincere le elezioni. Oggi l’anatra zoppa  di Palazzo Carafa si regge su una stampella (guarda caso anch’essa tradizionalmente afferente al centrodestra) che, precaria per quanto si voglia, la dice lunga sul definitivo superamento e sul fallimento di schemi ormai fuori uso. Saremmo pronti a scommettere che l’anatra zoppa a Lecce avrà lunga vita.

Lo stesso Gianni Marra (il candidato presidente della Provincia alla testa di ciò che resta del centrodestra) nella civica che ha vinto le amministrative a Squinzano pochi mesi fa non ha forse imbarcato pezzi di Pd e della società civile che mai in passato avevano tifato per la destra?

Attenzione, qui non si dice che queste trasformazioni rappresentino il meglio tra i sistemi di aggregazione democratica che procurano consenso. Si ricorda, però, che ondivagare non è un verbo nuovo per la politica: la storia del nostro Paese è piena di ‘cambia bandiera’. Anche in epoche in cui le ideologie (e le bandiere come le tessere di partito) avevano ancora un certo peso.

Non sarà complicato scoprire e dare una spiegazione: se volessimo scavare negli ultimi cinquant’anni quante incoerenze andremmo a recuperare perché non risulti difficile individuare la causa originaria delle trasformazioni cui assistiamo oggi?

Ora si grida all’alto tradimento, si estraggono i cartellini rossi per espellere chi, magari, tra qualche mese sarà seduto allo stesso tavolo – anche lì ‘ovviamente’ per ritrovate confluenze su programmi/interessi (sempre leciti) – ma forse nessuno ha il coraggio e l’onestà (nemmeno i ‘traditori’ che oggi mandano a casa i ‘vecchi’ e si vantano di essere il ‘nuovo’ o almeno ‘l’usato sicuro’) di riconoscere che  dietro ogni strategia verniciata di ‘democratico’ si celano miseramente obiettivi e traguardi che non sono mai quelli che persegue la comunità. E nemmeno buona parte di essa.

Il trucco non ha più segreti e sarà sempre più banale sorprendersi di fronte a chi (quasi la metà dei cittadini elettori) non si presterà al gioco del voto consapevole: non crede più nella democrazia come strumento sovrano della volontà popolare. Come dargli torto pur convinti che l’astensionismo non sia la soluzione?

Il materiale umano che ormai da troppo tempo occupa (sottolineando ‘occupa’) le cabine di regia non è all’altezza del compito. Anzi no, un compito lo svolge bene: alimentare i serbatoi della sfiducia e allargare il fronte dei populismi.

Nemmeno Stefano Minerva può sentirsi esentato dal riverbero di queste riflessioni. Ma l’età può giocare a suo favore rispetto ai cambi di rotta. È per questo che a lui non può mancare l’augurio sincero, ora che è presidente di un ente svuotato di poteri ma rimasto strategico, funzionale e centrale rispetto agli assetti rappresentativi dei territori, perché occupi parte del suo tempo alla ricostruzione della classe politica salentina. Un lavoro delicato e soprattutto slegato dagli interessi e dalle convenienze. È urgente, non ci resta molto tempo.

È il più grande atto d’amore che Minerva potrà riservare alla sua terra. Un impegno, però, che sia trasversale. Come la sua elezione alla guida di Palazzo dei Celestini.

 

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