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È stata all’insegna della “santa” memoria più che di un banale amarcord l’immediata vigilia del 24° anniversario dell’ordinazione episcopale dell’arcivescovo Seccia. E Portalecce, anziché usare parole di circostanza, preferisce dare spazio alle ‘confessioni’ del ‘grande capo’.

 

 

 

Solita telefonata dopo la pennichella pomeridiana: “Sei giù? Scendo? Dobbiamo riparare a una grave omissione”. Pochi minuti, nemmeno il tempo di fare un veloce ripasso sui guai combinati nelle ultime ore e pararsi dall’eventuale ramanzina che lui è già accomodato sulla poltrona nera e inizia a raccontare di quando, in occasione dei suoi settant’anni, lo scorso giugno, in un’intervista nella quale aveva ripercorso tutta la vita sacerdotale e non, aveva ricordato con imperdonabile tiepidezza i vent’anni trascorsi da prete nella parrocchia dello Spirito Santo a Barletta, la sua città natale.

Passo indietro. Nella tarda mattinata era tornato proprio dalla sua città dove, la sera prima, aveva celebrato l’eucarestia su invito del parroco, don Filippo Salvo, e tagliato la torta del compleanno con tre mesi di ritardo con la “comunità del cuore”. Non sarà mancata per lui qualche tiratina d’orecchie quella sera: “E bravo don Michele. Ormai non ci pensi più: racconti la tua vita e salti proprio lo Spirito Santo”. Che - detta così - potrebbe far gridare all’eresia.

Ed eccoci, allora, alla doverosa ammenda. È partito e per mezz’ora non si è fermato più.

“Ieri sera - ha iniziato felice - ho avuto la bellissima sensazione di essere tornato in famiglia. Mi sono sentito circondato dall’affetto e dalla gioia di tante persone, da tanti preti che erano lì per me e che erano lì - come se il tempo si fosse fermato a 24 anni fa quando li ho lasciati per andare vescovo a San Severo – …per continuare a pregare per le vocazioni. Iniziava, infatti, una settimana di preghiera in preparazione all’ordinazione sacerdotale del decimo prete (don Francesco Lattanzio e altri tre diaconi, ndr) uscito da quella comunità parrocchiale e che avverrà sabato prossimo nella cattedrale di Trani”.

“Come in un flashback - ha continuato - mi è tornato negli occhi e nel cuore don Ruggiero Doronzo, fondatore di quella parrocchia. E poi tutti i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i laici consacrati che in quella ‘grande famiglia’ hanno trovato la loro strada e la loro vocazione al servizio nella Chiesa. Il tempo si era davvero fermato: don Ruggiero è sepolto in quella chiesa. Perché era lì dal 1939. Come impedirgli di riposare in quella chiesa di cui è stato l’architetto, il costruttore, il muratore…”.

E qui giù un elenco di bellezze: “Il mosaico della grande Pentecoste dei Fratelli Mellini, i discepoli di Emmaus nella cappella del Santissimo e poi, quell’immagine che arrivando a Lecce mi ha fatto esclamare, ‘io qui sono a casa mia’: la Madonna del Buon Consiglio che è anche qui dipinta nella cappellina dell’episcopio ed è esattamente l’immagine che voli di angeli sostennero mentre, attraversando per aria l’Adriatico, dall’Albania giunse miracolosamente a Genazzano”. “Insomma, ho rivissuto una storia bella, fatta di volti, di persone, di seminaristi oggi preti ad iniziare dal parroco don Filippo. Poi parroci e viceparroci di altre parrocchie ma cresciuti allo Spirito Santo e legati alla stessa storia di fede di quella comunità. Fino al card. Monterisi, barlettano come me”.

“È stato un grande regalo per la mia persona - era un fiume in piena Seccia - e durante la messa ho ringraziato Iddio di tanta fecondità dello Spirito, non mia. Perché ragazzi cresciuti ‘a pane e catechesi’, ‘a pane e liturgia’, ‘a pane e carità’, anche attraverso il servizio agli ammalati sui treni per Lourdes, sin da piccoli hanno maturato il senso della Chiesa e della missione come stile di vita e scelta totale. Da qui la gioia della fecondità sacerdotale”.

È stato necessario fermarlo a un certo punto con una domanda che si faceva strada mentre, come un vulcano in eruzione, era difficile mettergli un freno: eccellenza, ma per lei la parrocchia è stata davvero la scuola per l’episcopato? “No - ha risposto di getto -. La parrocchia dello Spirito Santo è stata la scuola che mi ha insegnato a gustare la bellezza del sacerdozio. È in quella grande famiglia che ho imparato la pastorale della gioia (che è anche diventato anche il suo motto episcopale, ndr), alimentata dalla bellezza della generosità nella sequela e ripagata dalla vita dei fratelli, dalle loro esperienze esaltanti ma anche dalle sconfitte e dalle tragedie che il tempo, a volte, riserva. È così che si diventa pastori fecondi: nel cuore e nelle azioni. Senza dimenticare che un pastore, alla fine del suo lavoro, resta un servo inutile perché è Dio che fa crescere”.

La chiacchierata non si è fermata qui: l’arcivescovo non aveva alcuna intenzione di interrompersi, tanta era l’emozione e la gioia di comunicare l’esperienza. Sono i suoi talenti naturali grazie ai quali si è fatto voler bene anche qui, in questi quattro anni tra noi. Un grande vescovo: innamorato di Dio e dei poveri, padre, fratello, amico... E con una vocazione speciale in più: quella “dell’eterno parroco di periferia”. Auguri don Michele.

 

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