Gli italiani che dal punto di vista religioso si definiscono “cattolici” sono il 71,1% della popolazione; più nel dettaglio il 15,3% si definisce cattolico praticante, il 34,9% dichiara di partecipare solo occasionalmente alle attività della Chiesa e il 20,9% si definisce “cattolico non praticante”.
Il principale motivo per cui molti che si definiscono cattolici, ma vivono in realtà al di fuori della realtà ecclesiale, è una forma di individualismo religioso, il 54,4%. Sono alcuni dati dell’indagine “Italiani, fede e Chiesa”, una ricerca Censis per il cammino sinodale. Il 40,1% degli italiani ammette di non riconoscersi nella chiesa italiana attuale, cui si aggiunge un 22% che non sa dare una risposta e che quindi è scettico. I cattolici praticanti non sono contenti dell’assottigliamento del loro numero e il 60,8% pensa che sia la Chiesa che debba adattarsi alle mutate condizioni del mondo contemporaneo. Il 79,8% dichiara che la sua base culturale è di ispirazione cattolica, il 61,4% si dice d’accordo con l’affermazione che il cattolicesimo è parte integrante dell’identità nazionale. A partire da questi dati abbiamo sentito Franco Nembrini, insegnante, saggista e pedagogista italiano.
Professore, come possiamo spiegarci la discrepanza tra coloro che si definiscono cattolici e i praticanti?
Ci possono essere tante spiegazioni. Ha colpito anche me la distinzione tra il praticato esplicito e il sentirsi comunque con delle radici che hanno a che fare con la vita cristiana. Quando penso a come l’Italia stia in piedi sul fenomeno del volontariato, c’è sicuramente un volontariato laico, ma a me pare che tanti fenomeni socialmente organizzati - penso agli Alpini, all’Avis, ai gruppi parrocchiali - e molti valori della nostra cultura indubbiamente peschino in secoli di cristianesimo praticato e vissuto. Ma non è più riconosciuta la fonte: dagli anni Sessanta e Settanta in poi è accaduta una mutazione radicale nella percezione che i giovani, cioè gli adulti di oggi, avevano e hanno della loro appartenenza, sono scattate altre appartenenze, si è diffusa, anche attraverso la scuola, una cultura decisamente laica, a volte laicista contro l’esperienza cristiana e la vita della Chiesa, poi gli scandali hanno fatto il resto. C’è questa discrepanza per cui una persona vive di certi valori, ma non ne riconosce più l’origine e tantomeno è disposto a ritrovarla o ad andare a verificarla in pratiche che ritiene superate. Tutti i dati della ricerca mostrano che la pratica in senso stretto, la fiducia nella Chiesa, persino il riferimento al prete per un consiglio, che era ovvio fin quando ero bambino io, tutto questo è saltato o sta saltando.
Colpisce, dai dati della ricerca, che oltre il 40% degli italiani non si riconosca nella Chiesa cattolica perché la considera antica, senza una linea chiara né donne ai vertici. C’è, a suo avviso, un modo per superare questa disaffezione?
Tutti questi elementi citati sono di carattere sociologico: se la Chiesa viene guardata, giudicata, pensata dal punto di vista di certe categorie sociologiche o psicologiche, non ne usciamo più. È evidente che la Chiesa per sua natura non si adeguerà mai del tutto a nuove categorie, a nuove tavole valoriali che dicono il contrario di quello che lei insegna. Il problema mi sembra più profondo: la Chiesa è portatrice di un annuncio che non è suo, la Chiesa non può fare quello che vuole di se stessa, la Chiesa testimonia la presenza di Cristo sulla terra, la Sua nascita, morte e risurrezione, la volontà di bene che Dio ha nei confronti dell’umanità e porta nel mondo questo semplice annuncio di “salvezza”, di bene, testimoniandolo ed esigendolo innanzitutto al proprio interno. Occorre partire da questo e cioè che la Chiesa potrà tornare a essere un punto di riferimento per tanti, a patto che viva la fedeltà alla sua origine, alla sua natura di essere Corpo di Cristo nella storia. Possiamo fare discussioni sulla sua adattabilità o meno, su criteri nuovi stabiliti, di volta in volta, da un certo potere culturale, anche buono, ma la verità è che la Chiesa non può e non deve mai adattarsi: la Chiesa annuncia Cristo con una testimonianza di letizia e di bene, con una capacità educativa nei confronti dei giovani, con una carità reale nei confronti degli ultimi e di chi ha bisogno. E questo la Chiesa lo fa! Girando, io sono sempre rimasto stupito dalla quantità di bene nel mondo che ancora oggi la Chiesa esprime. A volte, ho l’impressione che se si eliminasse la Chiesa di punto in bianco si spegnerebbe il mondo, si spegnerebbero tanta luce e tanto bene, lasciando nella desolazione interi continenti e intere popolazioni. La Chiesa vive ancora oggi di una grande carità nei confronti di tutti.
Pur considerando il 45,5% degli italiani gli insegnamenti di Gesù tra gli insegnamenti spirituali migliori di cui disponiamo, solo un 16,3% dichiara che quegli insegnamenti ispirano la loro vita. Ci siamo adattati anche noi a una società con altri valori?
A partire dai dibattiti preconciliari, poi durante il Concilio e ancora dopo, in un contesto difficilissimo e complicato che nessuno era preparato ad affrontare, in tanta confusione, non è stato semplice riuscire a mantenere fede alla natura della Chiesa. E questo è avvenuto quando si è identificata con un certo moralismo per cui il cristiano sarebbe stato solo colui che viveva le virtù eroiche o almeno una certa coerenza ma che non ha mai interessato nessuno perché la Chiesa è fatta da peccatori come ci insegna Papa Francesco, da persone salvate dall’incontro con Gesù, non da persone perfette che riescono a mettere in pratica i valori. Ma la Chiesa si è fatta del male anche identificando troppo spesso il proprio messaggio non con la presenza salvifica di Gesù e perciò con un’esperienza di misericordia personale e comunitaria, ma con uno sforzo titanico di adeguamento ai cambiamenti. La Chiesa tradisce se stessa se va all’inseguimento delle novità culturali, sociali, così perde sempre, mentre la Chiesa vince perché è più avanti, è in attacco sempre rispetto al mondo.
Secondo la ricerca i dati emersi sono figli dell’individualismo imperante e della fatica della Chiesa di indicare un “oltre”. Come indicare oggi, in una società pesantemente individualista e violenta oltre misura, l’“oltre”?
Bisogna tornare alle origini. A volte, ho l’impressione del crollo di un impero, di tante illusioni, che dopo la Seconda Guerra mondiale la società ha vissuto, come l’illusione di un benessere facile e alla portata di tutti e invece non è vero. Quell’individualismo ci lascia disperatamente soli e con una difficoltà a educare nel rispetto di certi valori riconosciuti: oggi c’è una disgregazione e un impoverimento nel fatto educativo perché la generazione degli adulti non sa più cosa dire a figli, alunni, ragazzi. È una povertà, una debolezza prima degli adulti. Perciò, dico che bisogna tornare alle origini e grazie a Dio abbiamo tanti santi. Dio sta operando e, come avviene quando le istituzioni sono in crisi, ci mette una pezza generando dei santi, che aiutano le istituzioni a ritrovare la strada. Bisogna guardarsi in giro con molto coraggio, con molta libertà, adocchiare qualche santo e andargli dietro. È di questa testimonianza che abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di maestri che rendono presente Gesù ed entusiasmano. Nessuna modificazione culturale, nessun assetto sociale può distruggere il desiderio che l’uomo ha nel cuore, né può distruggere il cuore buono che Dio ha dato a ciascuno, si deve puntare su questo, alla radice proprio. Entrando in una classe, si trovano 30 ragazzi che non si importano della Chiesa e di Gesù, ma sono disperatamente soli. Se facciamo loro compagnia si aprono alla domanda di perché lo facciamo, perché siamo così, nasce una curiosità e il cristianesimo rinasce anche nelle situazioni più disperate. Al male che ha intaccato la radice profonda, persino il legame sacro tra genitori e figli, come dimostra la triste vicenda di Paderno Dugnano, si può opporre solo l’opera dello Spirito Santo, solo la presenza di Gesù che quel male può redimere, altrimenti non ci salverà niente e nessuno in questo crollo di certezze che i giovani vivono con disperazione, senza riferimenti né maestri. Questa è la nostra responsabilità.
Soprattutto, testimoniare con la vita il Maestro per eccellenza, Gesù…
Sì, senza ricorsi a trucchetti o a pratiche apparentemente aggreganti, come troppo spesso abbiamo fatto negli oratori, nella vita delle comunità cristiane, scimmiottando un po’ tecniche psico-pedagogiche che lasciano il tempo che trovano e che vanno bene per bambini sempre più piccoli e che perdiamo dopo la cresima. Bisogna ripartire da se stessi, perché c’è tutto da ricostruire. Colgo l’occasione per lanciare un appello affinché la generazione adulta e i cristiani, in particolare, promuovano una riforma dell’educazione e del sistema scolastico, perché sta uccidendo una generazione intera perché, pur essendoci persone bravissime e che ci dedicano la propria vita, il sistema in quanto tale mortifica ogni tentativo educativo. Bisogna fare qualcosa al più presto.