Ai tanti fattori di stress e di preoccupazione che affliggono l’individuo si aggiunge oggi anche l’ansia da news. Non è solo una conseguenza del tempo presente contraddistinto dalla pandemia e dal conflitto russo-ucraino.
Si tratta di un processo che colpisce il cervello umano da più di mezzo secolo, cioè da quando i media sono entrati prepotentemente nella quotidianità delle esistenze. Nessuno è potenzialmente esente da quella che l’architetto americano Richard Saul Wurman nel 1989 definiva “information anxiety” riferendosi a quella sindrome sociale (con ricadute psicologiche) causata dall’overload informativo.
Wurman intuì che l’estrema disponibilità di informazioni può inquinare le capacità di percezione e distinzione della realtà creando un gap crescente tra ciò che capiamo e ciò che pensiamo di aver capito. Forse anche per questo qualche anno prima (nel 1984) fondò insieme al grafico televisivo Harry Marks le “Ted talks” un format di brevi conferenze durante le quali uno speaker divulga (senza alcun fine di lucro e in modo chiaro e comprensibile) a un pubblico di non specialisti idee e proposte sui più svariati temi afferenti al mondo scientifico e sociale.
Il motto di Ted è “ideas worth spreading” (idee meritevoli di essere divulgate) e rimanda a una caratteristica dei media contemporanei: la spreadability (letteralmente: spalmabilità), concetto proposto dal guru della cultura digitale Henry Jenkins per indicare la possibilità che ha chiunque di diffondere messaggi per i propri scopi. È sufficiente avere un “profilo social” non solo per leggere ed editare contenuti, ma soprattutto per condividerli con il proprio pubblico. Questo protagonismo può rappresentare certamente un valore aggiunto. Si pensi alla guerra in corso e alle immagini, ai volti, alle storie di coloro che la vivono in prima persona. Il soldato ucraino in trincea che rassicura i suoi genitori e subito dopo dice loro “vi amo perché non si sa mai” o i numerosi tweet giornalieri del presidente Zelensky al suo popolo e al mondo, sono l’esempio di come, attraverso gli spazi digitali, si possano costruire processi di pace.
Di contro, l’impossibilità di circoscriverne il raggio di azione, può destabilizzarci a tal punto da farci sopraffare dall’angoscia e da perderci nei labirinti della disinformazione e della menzogna. Non sono esclusi da queste prospettive i mezzi di comunicazione tradizionali (giornali, radio e televisioni) che, come è intuibile durante una macro emergenza, impostano la propria programmazione sul racconto costante e continuo degli eventi bellici. È sempre stato così e lo è ancora di più adesso al tempo della convergenza informativa dove i diversi schermi si fondono e le varie fonti sono sempre meno identificabili.
Ciò che è certo (e, nostro malgrado, non sempre evidente per tutti) è che i media sono un nettare succoso per dei parassiti come i guerrafondai. Diventa, quindi, necessario innescare meccanismi di difesa dal loro uso distorto in termini di percezioni e di diffusione di temi. Non censurando come purtroppo avviene in Russia (e in altri luoghi del mondo) né tantomeno ponendo limiti o filtri di maniera che sarebbero facilmente superati. Anche spegnere il televisore o rifiutarsi di guardare le notizie online non funziona in un mondo in cui la connessione è condizione costitutiva delle nostre vite collettive. La soluzione, per quanto scontata (e difficile da realizzare), resta una sola: l’educazione. Non all’on e all’off o agli strumenti, ma anzitutto allo sguardo e al cuore. E a tutte le categorie dell’umano che rifiutano la violenza e la disumanità. Educarci ai media nel loro rapporto con la guerra significa anzitutto educare noi che ne siamo il riflesso nel bene o nel male. Significa, cioè, educarci alla pace che oggi e per sempre deve essere l’unica certezza a cui, per nessun motivo, dobbiamo rinunciare.