Un susseguirsi di informazioni sovrabbondanti, talvolta allarmistiche, gridate e/o contraddittorie, spesso non verificate e accompagnate dalla circolazione di ingannevoli fake news. La comunicazione sull’emergenza sanitaria ha spesso creato disorientamento tra i cittadini.
Il caso più eclatante è forse quello di Vaxzevria, il vaccino di AstraZeneca: prima escluso per le categorie più fragili per la sua copertura inferiore rispetto a Moderna e Pfizer e pertanto destinato ai giovani; poi di fronte alle rarissime prime segnalazioni di trombosi sospeso per qualche giorno e successivamente indicato agli over 60 e sconsigliato ai giovani; malgrado queste indicazioni, impiegato addirittura per gli Open Day fino alla tragica morte della diciottenne ligure nei giorni scorsi. Quindi il parere dell’Aifa secondo il quale, ai soggetti under 60 che hanno avuto una prima dose di AstraZeneca, il ciclo vaccinale verrà completato con sieri Pfizer o Moderna. Infine, la circolare del ministero della Salute che prevede la possibilità, per gli under 60 che abbiano ricevuto la prima dose di AstraZeneca e rifiutino il richiamo con un siero diverso, di completare il ciclo con lo stesso Vaxzevria, previo colloquio medico e dopo la firma di un modulo di consenso informato.
Ne parliamo con Mariagrazia Fanchi, direttrice dell’Alta scuola in media, comunicazione e spettacolo (Almed) dell’Università Cattolica, che insieme all’Alta scuola in economia e management dei sistemi sanitari (Altems) ha promosso nell’anno accademico 2020 – 2021 un innovativo master in comunicazione sanitaria.
Professoressa, la pandemia ha fatto emergere diverse criticità nella comunicazione, ma anche il suo ruolo centrale per una buona gestione dell’emergenza.
Un tema che non riguarda solo la comunicazione sulla salute; tuttavia il Covid è stato certamente un potente amplificatore di criticità già presenti nel processo di costruzione dell’informazione. Criticità ma anche opportunità. La questione AstraZeneca le ha esasperate di fronte all’opinione pubblica, ma occorra sapere che di solito la comunicazione in materia di salute, in particolare su nuovi farmaci e vaccini, arriva dopo lunghe sperimentazioni e quando raggiunge i destinatari è ormai un dato scientifico. In passato non eravamo stati mai messi di fronte ad un processo che, nella sua complessità e ambivalenza, è la norma per i medici e per i chimici e i biologi che operano all’interno dei laboratori. Insomma, per la prima volta ci è stato svelato il “dietro le quinte” nudo e crudo, senza filtri.
Abbiamo avuto anche la percezione di un mondo scientifico diviso che ha disorientato l’opinione pubblica.
L’universo della ricerca è uno spazio dialettico in cui opinioni opposte si confrontano anche in modo acceso; tuttavia non sempre medici, virologi, esperti a vario titolo hanno tenuto conto del fatto che dinamiche e toni normali nel gruppo dei ricercatori, all’esterno avrebbero potuto provocare un senso di disorientamento generale, tanto più se correlati al bene primario della salute. Ma questa esperienza ci insegna alcune cose.
Quali?
Questi mesi hanno dimostrato in modo inequivocabile ciò che sappiamo da almeno un decennio: la salute è un bene pubblico primario e questo deve essere ben presente anche al decisore politico che deve garantirlo con un’ampia politica di interventi e un’azione sinergica che ha il proprio perno nei presidi territoriali e ospedalieri, ma passa anche attraverso la ricerca. Ci ha inoltre insegnato che la comunicazione è il primo e fondamentale presidio per la salute e il benessere personale e collettivo. Una buona informazione è infatti ciò che consente ai cittadini di maturare una piena consapevolezza su rischi e buone pratiche, a tutela della propria salute e di quella di chi ci circonda.
Ma per i cittadini è sempre più difficile orientarsi, tra l’enorme mole d’informazioni, spesso non verificate, e le numerose fake-news in circolazione…
È vero. Il Covid ha fatto emergere nettamente i cambiamenti che da tempo hanno investito la costruzione e la diffusione delle notizie, dimostrando l’esigenza di un’informazione competente, responsabile e partecipata. Partendo dal presupposto che oggi i processi informativi non sono più top down ma reticolari. Mi rendo conto che il giornalista è tenuto ad una sempre maggiore competenza specialistica, un compito quasi soverchiante in una condizione di crisi che accelera i tempi e richiede continui aggiornamenti cambiando in modo profondo il ritmo e le modalità del lavoro. Al tempo stesso è necessario gestire linguaggi molto diversi perché i canali comunicativi sono moltissimi: per la prima volta nella storia, l’informazione ha raggiunto davvero tutti.
Che cosa intende dire?
Nel corso del secondo lockdown abbiamo condotto una ricerca dalla quale emerge che anche i bambini della scuola primaria hanno ricevuto per la prima volta da canali loro dedicati un’informazione diretta, non più filtrata dai genitori. Questo richiede lo sviluppo di competenze e di linguaggi assolutamente inediti per raggiungere pubblici diversi e in tempi sempre più rapidi. Poi c’è un secondo livello.
Quale?
Quello che riguarda i medici e gli esperti che si confrontano in tv esprimendo opinioni contrastanti, talvolta con toni apodittici. Qui entra in gioco la questione della responsabilità e di una sensibilità rispetto all’impatto che questo tipo di comunicazione può avere su persone ignare delle retoriche del confronto interno alla comunità scientifica. Ma a mio avviso esiste anche un ulteriore elemento.
E quale sarebbe?
C’è una dimensione etica a monte del comunicare, che poi poggia sulla stessa etimologia del verbo, e che abbiamo un po’ smarrito. Recuperare il significato profondo del comunicare – che è condividere, fare un servizio rivolto all’altro dove il centro non sono io, ma la persona alla quale mi sto rivolgendo, chiedendomi anche se abbia ha le competenze per comprendere quello che sto dicendo – costituirebbe certamente un argine alle derive cui abbiamo assistito in questi mesi.
Lei prima accennava alla comunicazione partecipata…
Più diventava saturo il contesto informativo istituzionale, soprattutto durante il primo lockdown, più si attivavano micro reti collocate spesso nei sistemi di messaggistica Telegram e WhatsApp, che funzionavano come luogo di costruzione e filtro di un’informazione profilata secondo le diverse realtà locali e le micro-comunità. Di per sé un processo positivo, ma che pone in modo urgente la questione della formazione. Queste micro reti in mano a broker, termine che definisce i soggetti che “smistano” informazioni, non necessariamente esperti ma che con la loro capacità di fare filtro svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione di un sapere condiviso, a volte hanno funzionato, a volte no.
Quale, allora, la strategia per un’informazione autorevole, chiara, credibile, insomma efficace?
Occorre un’azione sui diversi livelli di cui abbiamo parlato. Sul primo - i soggetti istituzionalmente deputati alla costruzione e gestione dell’informazione - è necessario investire più risorse. Un’informazione di qualità è cruciale per il buon funzionamento di tutta la società nelle sue diverse articolazioni. Il secondo, la responsabilità, chiama in causa tutti noi cittadini chiamati a partecipare alla costruzione dell’informazione. Non è più tempo di impreparazione: occorre essere attenti, consapevoli delle conseguenze delle nostre azioni e quindi responsabili. Il terzo livello è quello di una formazione più demotica che non può iniziare all’università ma deve partire dalla scuola primaria, dove è importante si sia aperto il capitolo della cittadinanza digitale, non più ineludibile perché questo fenomeno è destinato a crescere.
Come difendersi dalle fake news?
Abbiamo visto che non possono essere eliminate dall’alto, ogni tentativo in questa direzione è fallito. Occorre piuttosto assecondare l’onda partendo dal basso dove spesso le fake news vengono create, a volte inconsapevolmente, spesso invece ad arte, e inoculare lì quegli anticorpi che consentano di riconoscerle e quindi di smontarle. E questo va fatto prestissimo: gli under 20-25 sono i più abili nel fact-checking.