Martedì prossimo, 6 luglio, le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione sono chiamate a pronunciarsi sulla esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici.
La vicenda trae origine da un docente che nelle ore d’insegnamento aveva rimosso il crocifisso, in contrasto con la volontà degli studenti, che in maggioranza si erano espressi a favore della sua collocazione nell’aula, e disapplicando un provvedimento del preside: per il suo comportamento, in conflitto anche col preside, al docente era stata irrogata la sospensione di 30 giorni dalle funzioni, sanzione ritenuta legittima in entrambi i gradi di merito. Giunta la questione alla Suprema Corte, la Sezione lavoro ha richiesto una decisione in merito delle Sezioni unite. Sul tema ospitiamo un valido contributo di Carlo Cardia, emerito di Diritto ecclesiastico dell’Università degli Studi Roma Tre. Il Prof Cardia è stato autorevole componente delle commissioni in materia di libertà religiosa e di rapporti con le confessioni religiose alla Presidenza del Consiglio, e ha collaborato a preparare la posizione del Governo italiano nella trattazione del tema davanti alla Corte Edu.
Vorrei muovere da due constatazioni, di qualche rilievo, in merito alla questione generale della presenza dei simboli religiosi negli spazi pubblici. Da un lato, essi sono presenti in una molteplicità di Paesi, e di situazioni, e le diverse circostanze provocano a loro volta reazioni diverse a livello giuridico, individuale e collettivo: richiesta di rimozione del simbolo per la lesione di diritti individuali e di interessi legittimi, cambiamento delle normative che legittimano la presenza del simbolo, necessità di garantire la assoluta neutralità dello Stato e dell’ordinamento verso fedi e orientamenti religiosi che non possono essere imposti, neanche indirettamente, a diversi soggetti interessati, e via di seguito.
L’altra constatazione attiene ad una ipotesi di regolamentazione che potrebbe essere introdotta, pur nelle diversissime fattispecie che si presentano e che potrebbe essere così formulata. Se si deve garantire, in linea di principio, la neutralità più assoluta rispetto alla religione in quanto tale, nonché la tutela di ogni diritto individuale o interesse legittimo, ciò comporta che ci si debba orientare verso la abolizione totale e assoluta della simbologia religiosa ovunque venga esposta, con qualsivoglia motivazione. In questo modo, la definitività, e totalità, della scelta abolizionista (o negazionista) avrebbe ragione su qualsiasi ipotesi subordinata. Niente simbologia, piena neutralità, impossibilità di violare diritti o interessi legittimi, di qualsivoglia soggetto. A guardar bene, coloro che si oppongono all’esibizione del simbolo coltivano, dentro di sé, l’ispirazione all’abolizionismo integrale.
Tuttavia, nessuno si è veramente soffermato sulle conseguenze che deriverebbero da una scelta così drastica, eppur coerente con il principio cui essa si ispira. In realtà è importante soffermarci per un momento su queste conseguenze perché apparirebbero di una gravità unica nel suo genere. Ne deriverebbe, in sintesi, la perdita di significato complessiva di tutto la simbologia religiosa mondiale, la cancellazione e umiliazione di sentimenti, tradizioni, identità collettive che pure interessano nazioni, Stati, intere aree geografiche, o geopolitiche e culturali. Scegliendo l’opzione negazionista, si darebbe luogo alla c.d. “espansività” propria di ogni questione giuridica di principio.
E si dovrebbero cancellare, in Europa e larga parte dell’Occidente, in ogni loro istituzione o spazio pubblico, tutti i crocifissi, o simboli di analoga sostanza, mentre in pressoché tutto l’Oriente (e altri Paesi asiatici) dovrebbero essere offuscate le statue di Buddha, d’ogni derivazione o tradizione, e ogni altra simbologia legata alla Tradizione induista, islamica, dei Sikh, e influenzata da ogni ispirazione religiosa presente al mondo.
Non si è mai riflettuto con attenzione a questa conseguenza che porterebbe di fatto ad un oscuramento globale capace di ferire e stravolgere l’architettura, la conformazione religiosa, culturale, delle identità nazionali formatesi nei diversi corsi storici. Noi sappiamo che il diritto vivente è un’altra cosa. Esso rappresenta, e dona visibilità, ai momenti, agli eventi, ai valori spirituali di cui è intessuta, e attraverso i quali si evolve la storia degli individui, degli Stati, delle comunità, e proprio il rapporto tra simbolismo e rispettive identità storiche, nazionali, religiose, legittima la presenza dei segni negli spazi pubblici. D’altronde, ma qui vi faccio solo un cenno, noi sappiamo che proprio questo è stato il motivo che ha indotto la Grande Chambre a modificare nel 2011 la sentenza Lautsi, ispirata al principio di demolizione, e a riferirsi alla lettera e allo spirito dei trattati e delle convenzioni europee, compresa la Cedu, che garantiscono il rispetto dei valori e delle tradizioni comuni e insieme delle specificità, dei singoli Stati e assicurano in questa materia autentica autonomia e sovranità legislativa.
Se vogliamo utilizzare una immagine, potremmo dire che abolire i simboli religiosi di un Paese, addirittura nell’Europa intera, e perfino del mondo, sarebbe come se noi andassimo ad ammirare una splendida galleria rinascimentale (ma qui si tratta di tutti gli stati della terra) e se la notte prima una mano avesse scolorito le tinte, annacquato gli sguardi, sfocato i lineamenti dei soggetti ritratti, della loro nascita, delle loro gesta. In questo caso noi non ammireremmo più quei personaggi e quelle idee vitali che trasmettono vita interiore, forza e debolezza, e riflettono la storia da cui provengono: li vedremmo trasformati in pallide ombre dell’Ade che si avviano verso un destino malinconico senza che nessuno le possa riconoscere.
Il punto cruciale, che è culturale e diviene poi giuridico, è questo, l’Europa, i popoli, gli Stati che compongono la comunità internazionale non sono e non possono divenire ombre dell’Ade: essi vogliono mantenere e arricchire il patrimonio di religiosità, di cultura e idealità, con i rispettivi colori, con i loro simboli, le loro immagini, senza perdere nulla di ciò che vi è di buono, parlando al mondo un linguaggio di speranze e di libertà.
Il punto cruciale, dunque, è che ogni tesi giuridica drasticamente negazionista/abolizionista nei confronti della simbologia religiosa (o d’altro tipo, secondo la situazioni) non soltanto è contraria ai principi e alle norme ordinamentali attualmente vigenti, ma soprattutto viola la base stessa del diritto positivo che non può fungere da strumento distruttivo delle rispettive identità popolari e nazionali, e non può essere posta base di sentenze esse stesse (per così dire) negazioniste/abolizioniste.
Mi soffermo ora sulla seconda riflessione che vorrei sviluppare per lasciare aperto un dibattito che certamente non si esaurirà in tempi brevi. Vuol dire, forse, che essere contro il negazionismo dei simboli religiosi comporti che un tema di tali dimensioni, non debba essere regolamentato, e non possa trovare delle discipline soddisfacenti ed equilibrate? La risposta è negativa.
Esistono diversi parametri che possono aiutare a districarsi nelle varie situazioni per consentire una scelta positiva a favore dei soggetti che invocano una protezione ragionevole dei simboli e una preferenza accettabile rispetto ad altre opzioni. Il primo parametro cui fare riferimento è quello della proporzionalità. Nel momento in cui esiste in concreto una società pluralista, l’ordinamento può favorire la compresenza di simboli religiosi in una o più strutture pubbliche, richiesti o approvati da diverse comunità confessionali che riflettano quel pluralismo sociale, e quella stratificazione evolutiva che si sono concretizzati nella nascita, evoluzione, sostituzione di correnti religiose. Altro parametro da tenere presente è quello della non discriminazione dei diritti e degli interessi collettivi, che in materia di simbologia, possono essere sacrificati nel nome di una neutralità astratta e totalitaria in materia religiosa, culturale, perfino politica. Il totalitarismo può presentarsi, in effetti, anche in senso negativo, e le sono la riprova le scelte originarie della Rivoluzione francese, di quella Bolscevica, e di tutti i Paesi che si sono ispirati a principi comunistici. La neutralità portata all’eccesso, che cancella fede, religione e simbologia, non coincide con l’imparzialità, ma si trasforma nell’imposizione dell’irreligiosità, nella cancellazione dell’ispirazione spirituale che fonda e alimenta le qualità più alte dell’umanità.
Infine, un parametro che potrebbe indurre a scelte strategiche positive potrebbe essere quello di un accordo preventivo, e composito, tra componenti religiose e ideali (culturali, giuridiche) della società civile e politica proprio per favorire una presenza pluralista delle simbologie confessionali. In questo modo, si possono favorire l’accettazione e l’esaltazione delle identità dei raggruppamenti sociali, promovendo al tempo stesso quel dialogo interreligioso e ideale, che costituisce il contenuto più prezioso di un substrato democratico che deve divenire lo strumento più adatto per l’evoluzione della comunità umana. (Carlo Cardia)