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È notizia di questi giorni la volontà di voler avviare, nel nostro Paese, una campagna referendaria sulla legalizzazione dell’eutanasia con uno slogan ben preciso: “Liberi fino alla fine”.

 

 

 

Tale comitato muove da un dato di fatto: la Corte costituzionale ha chiarito che l’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) non può essere punito nel caso in cui la persona che l’abbia richiesto sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Tuttavia, afferma questo comitato, le altre persone con patologie irreversibili che producono dolori intollerabili e i pazienti impossibilitati ad assumere autonomamente un farmaco, in Italia non hanno la possibilità di scegliere e di chiedere aiuto medico attivo per la morte volontaria poichè il nostro codice penale vieta l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).

Da qui la proposta referendaria di abrogare in modo parziale l’art. 579, lasciando intatte la tutela delle persone vulnerabili, i minori di anni 18, le persone che non sono in grado d’intendere e volere e quelle il cui consenso è stato estorto. Così la volontà ultima sarebbe quella d’introdurre il diritto all’aiuto medico alla morte volontaria; il tutto in ragione della libertà di ognuno nel disporre del proprio corpo come della propria vita.

La questione, certamente, manifesta una importanza di fondo: si sta parlando della vita umana e già questa richiede un rispetto ed una attenzione di massima portata. Ma l’antica questione della “dolce morte” porta con sè un altro problema, quello della libertà. Chi è l’uomo veramente libero? E l’io è davvero libero quando crede di disporre di se stesso come desidera, sciogliendosi da ogni vincolo etico e sociale?

Tematiche come queste non possono prescindere da una verità inalienabile: la vita mantiene la sua altissima dignità dal concepimento fino al suo naturale tramonto. Pertanto, ogni tipo di assistenza alla vita, dal principio come alla fine, non potrà mai aggirare questo dato ma soltanto servirlo. È il caso delle cure palliative come della terapia del dolore nelle persone con malattie gravi e in stato terminale. Assistenza, però, che mai deve tramutare in accanimento terapeutico, quando il voler applicare ad ogni costo tutti i mezzi tecnici a disposizione potrebbe divenire disumano e controproducente rispetto alla tutela sensata della vita.

Pertanto, in una cultura sempre più dello scarto, la vocazione della Chiesa sarà sempre quella di farsi portavoce di una etica della cura, un’etica capace di scrutare dietro ogni difficoltà e sofferenza fisica l’alta dignità della vita di ogni uomo e donna; la nostra vita, infatti, è dono di Dio, dono altissimo posto tra le nostre fragilissime mani.

Va da se che anche la libertà, la nostra libertà, è dono e non proprietà. Oggi si assiste ad una cattiva concezione di libertà: nel caso dell’eutanasia, si afferma come il corpo sia proprietà privata di cui disporre a proprio piacimento e fin quando se ne avverte la necessità, costituendosi un io narcisista e autoreferenziale; un io che rifiuta ogni vincolo morale ed etico. Ma una libertà così intesa non potrà mai rendere l’uomo pienamente libero, ma solo ulteriormente schiavo. La vera libertà sorge nel cuore umano quando si passa dalla libertà come manipolazione, come egoismo, ad una libertà che è comunione, rispetto, servizio.

Häring, insigne moralista del Novecento, ci ha donato una tra le più belle e incisive definizioni di libertà: «Cristo ci ha liberati da una libertà rubata - libertà come furto - e per una libertà ricevuta con gratitudine come dono […]. Cristo ci ha affrancati dalla solidarietà di peccato e ci ha donato la libertà di alleanza […]. Cristo ci rende liberi dalla pigrizia, dalla fuga e dall’alienazione e ci conduce alla creatività, alla libertà interiore e alla pace […]. Finalmente Cristo ci ha resi liberi dalla paura della morte e ci ha donato la gioia di vivere» (B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo – I, Ed. Paoline, Roma 1980, 150-151).

 

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