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“Se è vero che la civiltà nasce quando l’uomo impara a seppellire i propri morti, è ancora più vero che nasce quando l’uomo inizia a curare il suo prossimo, a provarne compassione”.

 

 

 

Ne è convinto lo psichiatra Tonino Cantelmi, direttore sanitario dell’Istituto don Guanella di Roma. Il 4 dicembre Cantelmi è intervenuto al convegno nazionale “Chiesa e salute mentale”, promosso alla Pontificia Università Lateranense dal Tavolo sulla salute mentale costituito presso l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. E all’evento, intitolato “Alla ricerca del tempo futuro”, ha parlato di “paradigma della compassione”.

 

Professore, perché abbinare la compassione alla salute mentale in una società caratterizzata, per dirla con le parole del Papa, dal “naufragio di civiltà”?

La compassione è insita in noi, fin dal paleolitico. Lo dimostra il rinvenimento in Kenya e in Georgia di due scheletri adulti, uno maschile e uno femminile, con gravi deformazioni ossee, risalenti rispettivamente ad un milione e ottocentomila anni fa e ad un milione e seicentomila anni fa. Due persone che se non fossero state curate e accudite da qualcuno non avrebbero potuto sopravvivere. La cura fa parte di quel sistema motivazionale di accudimento all’interno del quale vi è la compassione. Un paradigma sempre più presente - insieme ad altre “parole” che attengono alla tradizione cristiana ma anche ad altre grandi tradizioni spirituali - nella terza rivoluzione della psicologia cognitiva.

Che cosa intende dire?

Pensiamo al perdono: da una ricerca su Pubmed (motore di ricerca di letteratura scientifico-biomedica, ndr) emerge che negli ultimi 10 anni sono stati pubblicati almeno 500 studi scientifici sul perdono. Ma un ruolo straordinario lo hanno anche compassione, mindfulness (meditazione), accettazione, vita significativa, e perfino “valori”. Parole (e concetti) che la psicologia sta piano piano “scippando” alle tradizioni spirituali. E la pandemia ha scoperchiato questa realtà; oggi abbiamo un’impennata di richieste di questo tipo di psicoterapie. Il metodo scientifico e la dimensione spirituale iniziano finalmente a dialogare tra loro in modo diverso, equilibrato, maturo rispetto a un passato che forse non ci appartiene più.

 

La compassione è la “cifra” del buon samaritano. Come si declina il suo paradigma in ambito psicologico e psicoterapeutico?
Si tratta di una modalità multistrutturata di relazionarsi con il dolore e la sofferenza, insita in noi ma esplosa con la pandemia, un grande trauma che ha minacciato e tuttora continua a minacciare l’umanità con conseguenze che stiamo vedendo e vedremo ancora più nel futuro. Un paradigma che irrompe con veemenza nella parabola del buon samaritano, sintetizzato nella risposta fulminante del dottore della legge a Gesù: “Chi ha avuto compassione”. Il buon samaritano ha riconosciuto il dolore, l’ha accolto e ha assunto un impegno concreto nei confronti di quella sofferenza, ha aperto una porta sul futuro. In ambito psicologico la compassione ha la capacità di attivare due skill fondamentali per superare l’urto della pandemia e ripartire.

Quali?
Anzitutto la flessibilità psicologica che ha diverse declinazioni ma di cui voglio sottolineare, in particolare, la capacità di allargare il “portafoglio” valoriale di una persona. Per la psicologia, valore è ciò per cui vale la pena impegnarsi, è una presa di posizione. Il secondo skill è la capacità di “futurazione”, di aprire una finestra sul futuro, cruciale in una pandemia caratterizzata da un tempo sospeso nel quale la capacità di pensare al futuro è paralizzata dallo stato emotivo predominante dell’incertezza. In questa fase post-pandemica, nella quale siamo tutti ancora un po’ storditi ma stiamo tentando di rialzare la testa, abbiamo bisogno di una compassione che inneschi il duplice meccanismo della flessibilità psicologica e dell’apertura al futuro per ripartire e dare un nuovo senso al nostro agire. Che la Chiesa si interpelli su questo tema con l’aiuto di esperti mi sembra un segnale importante.

Anche perché, come ricorda l’Oms, non c’è salute senza salute mentale, eppure questo ambito non sembra ricevere ancora la dovuta attenzione dalla politica…

Prima della pandemia si diceva che la salute mentale sarebbe stata la grande sfida del decennio 2020-2030: il Covid ha reso quest’affermazione ancora più clamorosa. Non curare la salute mentale ha enormi costi psicologici e sociali. La depressione, il disturbo più diffuso, non impatta solo sull’individuo ma sul suo lavoro, sulla vita familiare e sul benessere dei figli. Non c’è nulla di più lungimirante che investire in salute mentale: un dollaro investito in questo ambito ne fa risparmiare cinque in termini di spesa sociale. Questa consapevolezza dovrebbe tradursi in decisioni e comportamenti concreti da parte delle società e dei governi.

La Pastorale della salute della Chiesa italiana, con il suo Tavolo sulla salute mentale e i suoi convegni annuali, accende i riflettori sull’importanza del benessere mentale. In questo orizzonte, qual è il ruolo delle parrocchie?

In Italia le parrocchie sono già un grande spazio di “terapia informale”. Luoghi di accoglienza, consolazione e sostegno, svolgono tutto ciò che si può considerare terapia informale e costituiscono forse la maggiore rete di sostegno alla sofferenza emotiva delle persone. Perciò è fondamentale che anche la pastorale in questo ambito non sia improvvisata, ma assuma una forma più strutturata e compiuta.

 

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