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“La distruzione della mia opera - ha detto lo scultore Pistoletto - mi fa paura perché sottolinea il tempo in cui si continua a rispondere a qualsiasi proposta di bellezza, di pace e di armonia con il fuoco e con la guerra. Mi sembra quasi l’eco di quello che sta succedendo nel mondo dove c’è gente che dà fuoco da tutte le parti”.

 

 

Michelangelo Pistoletto, è l’artista che ha visto distruggere con il fuoco la sua installazione artistica inaugurata a Napoli, in Piazza Municipio, lo scorso 28 giugno. L’opera voleva essere una chiara riflessione tra la miseria e la nobiltà, l’arte e il consumismo sfrenato. Trovato l’autore della distruzione e dell’incendio, si è aperto un dibattito importante.

Il primo cittadino ha detto di non condividere l’idea di sorvegliare costantemente le opere d’arte e i luoghi di cultura: “se vogliamo sorvegliare tutto quello che abbiamo, dobbiamo vivere in una società sorvegliata. Io non credo nelle società sorvegliate, credo nella sorveglianza sociale. Dobbiamo vincere questa battaglia non mettendo una guardia in ogni angolo della città, ma facendo crescere la grande civiltà di Napoli”.

Dall’altra, il pensiero di chi è impegnato ogni giorno nella Terra dei fuochi, e combatte la sua battaglia: don Maurizio Patricello. Se inizialmente si era pensato a una sfida social, a una critica artistica o ad un gruppo di vandali annoiati, la verità, si è rivelata più banale e imbarazzante di quanto si potesse credere. Una banalità però drammatica, che ci fa spostare lo sguardo dall’arte alla sicurezza dei cittadini e al dovere della solidarietà e del decoro della città.

Ad accendere il rogo è stato un giovane clochard. Uno dei tanti senza fissa dimora che affollano le strade di Napoli, con il loro malessere, la fame di pane, il desiderio di un letto, il diritto di essere curati. Perché purtroppo sono tanti i barboni affetti da turbe psichiatriche, quindi pericolosi per sé stessi e per gli altri. “Eccolo l’uomo che non ama l’arte - afferma don Patricello -. Eccolo il cavernicolo che ‘brucia la bellezza’. Un uomo irresponsabile, fragile, che ha bisogno di essere preso per mano, aiutato, curato. Prima che qualcuno si strappi le vesti e riprenda a cantare il solito ritornello dell’immigrato straniero, vale la pena ricordare che Simone Isaia, il piromane, è un italiano. Un italiano povero, affamato, ammalato. Un fratello pericoloso. Non oso pensare se l’altra notte anziché dare fuoco al monumento si fosse scagliato contro una persona che faceva ritorno a casa”.

Don Patriciello ha aperto un dibattito importante che nessuna città può sottovalutare. Mense, dormitori, ambulatori e unità di strada: aa Caritas assiste ogni anno circa 28.000 persone senza la casa, uomini e donne in cui non esistono più radici e nella quale la mancanza di speranza impedisce persino il rispetto del proprio corpo, spingendo a rifugiarsi nell’alcolismo e nelle dipendenze.

La ricerca effettuata dalla Caritas italiana illustra un dato allarmante: tra i disturbi più comuni di chi vive senza dimora ci sono i “disturbi psicotici, quindi questi uomini e donne hanno deliri, allucinazioni, idee di persecuzione. Spesso li vedi confabulare da soli, rispondere ad allucinazioni uditive che non gli permettono di concentrarsi su null’altro, compresa la cura della propria persona”. Le malattie mentali di questo genere se non curate “portano a delle crisi ed esse possono durare anche molti mesi”. A quel punto “la loro incongruenza rispetto al mondo diventa difficile da assimilare dagli altri, da chi non prova quel disagio” ed è da lì che scaturisce la classica indifferenza da parte della società, che spesso preferisce far finta che questi essere umani non esistano.

Elio Sena, psichiatra e neurologo che nel corso della sua carriera ha all’attivo molti interventi su persone che vivono in stazione o in giro per la città. A suo parere “gli interventi sociali per le situazioni di marginalità in Italia ci sono, ma di base viviamo in una società a cui manca l’educazione nello sguardo”. È la “banalizzazione dello sguardo sociale che deve indignare, lo stesso che spinge non a interessarsi di queste persone senza casa, ma solo a non volerle vedere sporche e esteticamente poco gradevoli in un parco in cui magari si portano i propri figli”.

Eppure, don Roberto Malgesini, accoltellato da un clochard che assisteva scriveva: “una società si dovrebbe giudicare da come tratta i più vulnerabili”.

 

 

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