Si intitola “Il fuoco sacro” e più che un libro è un piccolo gioiello quello redatto dal prof. Gilberto Spagnolo.
Pagine scritte col cuore e con quella passione intima, cristallina, che - detto tra noi - solo un novolese può avere quando parla di Novoli e del proprio santo: quell’Antonio che, per quanto egiziano ed eremita, nel comune del Nord Salento sembra quasi abitarci, vivendo accanto alle ormai infinite generazioni di suoi figli che lo riconoscono e lo amano davvero come un padre.
Prof. Spagnolo, potrebbe raccontarci la genesi di questa sua opera?
Ammetto che esplorare la storia e la cultura novolese mi ha sempre affascinato. Questo mio studio comparve per la prima volta nel 1998, in seguito ad una ricerca volta a ricostruire, attraverso le fonti e i documenti d’archivio, l’indissolubile quanto commovente legame che stringe Novoli al suo patrono. Da allora, molto tempo è trascorso: l’opera è giunta alla sua terza edizione e si è arricchita di testimonianze, di foto d’epoca, dei saggi pubblicati nel corso degli anni sulla rivista “Le fasciddre te la Fòcara” nonché di una bellissima introduzione firmata dallo storiografo Mario Cazzato.
Cosa sappiamo sulle origini del culto antoniano a Novoli?
La venerazione di Sant’Antonio eremita a Novoli, come nell’intera Puglia, ha senza dubbio radici profonde e può essere ricondotta all’influenza bizantina nel Mezzogiorno italiano. Ovviamente il culto non si estinse con la fine della dominazione greca ma si mantenne sempre vivissimo come provano le molteplici testimonianze iconografiche sparse per le nostre contrade. Una delle più belle ed antiche è quella ammirabile, ancora oggi, nella basilica galatinese di Santa Caterina d’Alessandria che ho scelto di riprodurre sul fronte del mio volume. Dai documenti conservati presso la Curia arcivescovile di Lecce si evince che a Novoli, già agli albori del Seicento, esisteva un “sacellum”, cioè un tempietto dedicato al santo proprio lì dove oggi sorge il santuario. Questo piccolo luogo di culto iniziò ad essere ampliato a partire dal 1640 sino a quando, nel 1664, il popolo elesse, in maniera ufficiale, l’anacoreta copto come proprio patrono. La ratifica da parte della Sacra Congregazione dei riti giunse però solo nel 1737. Alcune fonti ci descrivono, anche nei particolari, le diverse manifestazioni religiose, ormai scomparse, in cui si esprimeva la devozione verso il protettore nelle giornate di festa. In passato, ad esempio, avveniva la cosiddetta “nturciata” che vedeva i fedeli partecipare portando dei pesanti fusti di cera ardente. Oppure la “strascina”, una batteria pirotecnica che accompagnava il tragitto, compiuto dal simulacro del santo, dal santuario alla chiesa madre. Protagonista dei festeggiamenti era poi lu “Ntunieggiu”, un maialino che veniva lasciato libero di scorrazzare per le vie del paese.
È possibile invece analizzare, dal punto di vista storico, la tradizione del falò?
Volendo essere sinceri, le origini della fòcara restano ancora piuttosto oscure. Non è possibile dunque affermare con certezza quando ebbe inizio la consuetudine di onorare il santo dando fuoco ad una grande pira. Allo stato attuale delle ricerche, il più antico documento che attesta l’esistenza del falò è un articolo apparso nel 1893 su una testata locale, la Gazzetta delle Puglie. Il documento venne rintracciato dallo studioso Alfredo Mangeli. Si tratta di un semplice pezzo cronachistico che ci informa come, in quell’anno, vi furono notevoli difficoltà ad accendere la fòcara. È invece del 1909 una delle più remote testimonianze fotografiche dell’evento. Ai primi decenni del XX sec. risalgono poi gli scritti dello storico Pietro Palumbo, dello studioso di tradizioni popolari D’Elia e di mons. Oronzo Madaro. Nelle loro pagine, tali autori sono concordi nel definire l’accensione della fòcara un “rituale antichissimo”. Una fonte eccezionale è tuttavia quella rinvenuta alcuni anni fa, presso l’Archivio di Stato di Napoli, dalla studiosa Giuliana Petracca. È una sorta di quaderno, datato intorno al 1460, in cui vengono registrati i nomi dei carbonai autorizzati a rifornire la zecca di Lecce. In moltissimi sono originari del casale di Santa Maria de Novis, cioè di Novoli, che all’epoca poteva contare poco più di un centinaio di abitanti. Questo significa non solo che la produzione del carbone era l’attività lavorativa più diffusa tra i nostri antenati ma anche che la familiarità dei novolesi con il fuoco parte davvero da molto lontano.