Si è conclusa lo scorso 7 maggio (dal 3) la visita di Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre-Italia (Acs), in Ucraina.
Scopo del viaggio è portare la vicinanza della Fondazione pontificia alla popolazione del Paese, invaso il 24 febbraio scorso, dall’esercito russo. In Ucraina Monteduro ha incontrato, tra gli altri, gli arcivescovi di Leopoli (GUARDA) e di Kiev, mons. Mieczyslaw Mokrzycki e mons. Vitalii Kryvytskyi, il nunzio apostolico mons. Visvaldas Kulbokas, e diversi esponenti delle agenzie caritative della Chiesa cattolica locale.
Il direttore di Acs-Italia si è recato in visita a Bucha (GUARDA), Irpin, Borodyanka, città martiri della guerra e nel seminario, devastato e saccheggiato dai russi, di Vorzel. Acs ha preso l’impegno di finanziare il totale recupero del seminario (GUARDA). Dallo scoppio della guerra Acs ha stanziato oltre 2,5 milioni di euro per sostenere gli sfollati. Subito dopo l’aggressione russa la Fondazione pontificia aveva stanziato 1,3 milioni di euro. Ora sta partendo una seconda fase di aiuto per un valore di circa 700 mila euro. Altri progetti sono in va di definizione. Stanziati fondi anche per le diocesi, le eparchie e gli esarcati dell’Ucraina orientale. Aiuti per un valore di 579.491 euro sono stati approvati per sostenere, attraverso le offerte per le messe, i sacerdoti ucraini. Acs supporta a anche la formazione dei 900 seminaristi del Paese. Abbiamo chiesto a Monteduro di tracciare un bilancio della visita in Ucraina (GUARDA).
Quali sensazioni e che bilancio può tracciare da questa missione in Ucraina?
Innanzitutto il timore che possa esserci già nei prossimi giorni una concreta escalation dell’uso delle armi. Cosa che noi in Occidente rifiutiamo pregiudizialmente ma che in Ucraina si arriva addirittura a mettere in conto.
Quale può essere, allora, lo sviluppo alla luce dei colloqui avuti in questi giorni?
È difficile dare una risposta. Credo sia impossibile immaginare una prosecuzione dell’attuale conflitto, che ha radici in quello del Donbass del 2014, per altri anni. Sarebbe qualcosa di inimmaginabile. Il punto è che tutti si sono detti d’accordo sul fatto che ci troviamo davanti una popolazione patriottica, orgogliosa, che non accetterà mai la concessione di ciò che Putin ha sostanzialmente già conquistato, la Crimea e, con sfumature diverse, le due repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk.
Che Chiesa ha trovato e di cosa ha bisogno?
Ho visto una Chiesa viva dove il concetto di Chiesa coincide con quello di comunità. Oggi la pastorale e il sostegno spirituale si trasforma in cura, anche fisica, di quelle comunità che chiedono rifugio e protezione. È una Chiesa più coesa di quanto in Occidente si creda. Le comunità cristiane hanno reagito in modo univoco e compatto e dobbiamo fare di tutto perché questa unità non venga mai meno. E anche se testimonianze raccolte ci hanno riferito che alcuni sacerdoti ucraini, aderenti al Patriarcato ortodosso di Mosca, sarebbero stati individuati come cospiratori, addirittura ammassando armi nei luoghi di culto, da tutti i testimoni cattolici incontrati è venuta solo una richiesta: unità. Se venisse meno questa unità sarebbe una grave sconfitta per l’Ucraina.
Cosa fa Acs per rispondere ai bisogni della chiesa cattolica ucraina?
Acs già finanzia ordinariamente l’Ucraina con decine di progetti correlati alla pastorale, quindi collegati alla Chiesa cattolica locale. Ne è un esempio il contributo alla formazione dei 900 seminaristi. Ora a questo impegno ne aggiungeremo altri individuando progetti specifici per aiutare la Chiesa in questo particolare momento. Quindi finanzieremo acquisti di pulmini che non sono un lusso ma uno strumento di prima necessità perché utili a trasportare aiuti umanitari e trasferire persone che ne hanno bisogno. I seminari, inoltre, oggi non sono più un luogo per la formazione dei sacerdoti ma sono anche luogo di accoglienza. Penso anche al nuovo seminario della diocesi di Kamjanets-Podilskyj, nella cui struttura, finanziata da Acs, troverà spazio anche un centro di riabilitazione psico-motoria per i reduci della guerra.
Per quel che riguarda le Chiese che sono nelle zone orientali del Paese potenzialmente a rischio di una lunga occupazione russa, cosa pensate di fare?
Esarcati ed eparchie dell’Ucraina orientale hanno già ricevuto aiuti concreti e siamo in stretto contatto con loro perché possano beneficiare di tutto il necessario.
Circa una visita del Papa a Kiev, cosa è emerso da questo viaggio?
La presenza a Kiev del Papa, anche nella forma di un pellegrinaggio, è da tutti desiderata. Ora però la situazione si è ingarbugliata. Il Papa ha già dimostrato di non avere alcuna paura, come accaduto in Iraq, quando si recò a Mosul, e in Centrafrica. Io credo che se oggi il Pontefice non ha rotto gli indugi è per un gesto di amore per gli ucraini. Teme, infatti, che la sua presenza possa alimentare un inasprimento del conflitto. Siamo nelle mani del Papa, affidiamoci a lui.
Cosa è più utile all’Ucraina in questo momento: l’invio di armi o un aiuto di natura diplomatica?
Entrambe le cose. Dopo aver toccato con mano le sofferenze dell’aggressione, dopo aver visto cosa è avvenuto nei dintorni di Kiev nei primi 50 giorni di conflitto, non si può essere contrari ad un aiuto. Ricordo quanto ci hanno riferito alcune autorità ecclesiastiche ucraine: nella regione di Polissya, al confine con la Bielorussia, le truppe russe sarebbero entrate avendo in mano le liste degli abitanti dei villaggi fornite loro da infiltrati e spie. Nelle liste vi erano i nomi anche di ex reduci della guerra del 2014 del Donbass. Molte di queste persone sarebbero state uccise. Tra loro anche civili considerati mutilati di guerra. Ma nel contempo dobbiamo anche chiederci fino a quando la risposta potrà essere solo militare. È arrivato il momento di pensare - anche da parte ucraina - a una soluzione negoziata del conflitto. Non è tutto nelle mani di Putin. Occorre vagliare, infatti, anche un possibile solco che si potrebbe creare tra la real politik che dovrà animare l’azione del presidente ucraino, Zelenskiy, e la volontà popolare.