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Il presidente della Cei, intervistato per la rivista "Sovvenire", riflette sulle caratteristiche che deve avere il sacerdote per l’Italia di oggi e sull’importanza del sostenere i nostri preti con le offerte. E poi ci regala un ricordo della sua prima messa, quando la sua “basilica” era uno scantinato di periferia.

 

 

L’arcivescovo di Bologna, il card. Matteo Zuppi, è un pastore con l’odore del gregge e certamente è anche per questo che Papa Francesco lo ha voluto alla guida della Cei. In occasione della giornata nazionale delle offerte, il 18 settembre, la rivista “Sovvenire” ha raccolto la sua testimonianza (GUARDA): una riflessione sulle caratteristiche che deve avere il sacerdote per l’Italia di oggi e sull’importanza del sostenere i nostri preti con le offerte. In conclusione, un ricordo della sua prima messa, quando la sua “basilica” era uno scantinato di periferia.

 

Eminenza, proviamo a tracciare l’identikit del prete che serve all’Italia del 2022…

In realtà è il prete di sempre, che deve però parlare il linguaggio di oggi. In quel linguaggio deve tradurre il vangelo di sempre e il proprio servizio di presbitero, che è servizio alla comunione, servizio dell’annuncio del vangelo e soprattutto dell’accompagnare i fratelli e le sorelle, oltre a quello fondamentale dei sacramenti. Il problema è sempre il linguaggio e ci sono due questioni fondamentali. La prima è parlare di ciò che la gente capisce, non in ecclesialese, in latino o con delle categorie che qualche volta noi stessi facciamo fatica a spiegarci. Il Vangelo si spiega benissimo. Dobbiamo fare come fece San Francesco a settembre del 1222, esattamente 800 anni fa, quando parlò nella piazza davanti al comune di Bologna. La cosa che colpì tutti fu che non faceva la predica ma sembrava che “colloquiasse”: parlava italiano, non latino, e parlava al cuore. E poi c’è la seconda questione, cioè il problema di parlare a tutti, che è quello che ogni prete cerca di fare.

 

Guardando i nostri sacerdoti, i quasi 33.000 preti italiani, quanto, secondo lei, sono vicini a questo modello?

Facciamo tutti fatica e soprattutto non vogliamo diventare quelli che si adeguano e cercano di essere alla moda, rischiando di banalizzare le cose e di far diventare lo strumento più importante del contenuto. Sul linguaggio abbiamo molto da imparare ma dobbiamo stare attenti a non entrare nella grande fiera della banalizzazione dei contenuti, che poi è il grande rischio di internet.

 

Da più di 30 anni, ormai, esiste uno strumento, e cioè quello delle offerte deducibili, consegnato alle comunità per prendersi cura dei loro pastori. Sono però ancora in pochi, in proporzione, i cristiani che se ne servono, tanto è vero che le offerte coprono meno del 2% del fabbisogno totale per il sostentamento del clero. Perché secondo lei?

Credo che il problema sia lo strumento. Doveva essere una garanzia di partecipazione, non essendo più lo Stato, con la congrua, ad occuparsi dei sacerdoti ma i fedeli stessi, con le offerte deducibili e con la firma dell’8xmille. E invece questo sistema è stato preso quasi come una sorta di delega, “tanto c’è la Cei che se ne occupa”. No: dobbiamo riuscire a spiegare alle persone il senso della partecipazione.

 

Cosa direbbe ai fedeli che ogni domenica riempiono le nostre chiese per invitarli a fare un’offerta per i sacerdoti?

Che la Chiesa è casa tua ed è bello aver voglia di farla funzionare, sostenendo i sacerdoti; è bello che anche tu abbia voglia di dare una mano. Non c’è Pantalone che paga, come si dice a Roma: il pantalone ce l’abbiamo noi, e a volte anche con qualche toppa…

 

A volte però sono gli stessi sacerdoti che hanno delle remore ad affrontare questo discorso: cosa vorrebbe dire loro?

Di non aver timore. Si tratta di condividere anche le difficoltà, perché ne abbiamo bisogno. Noi preti viviamo della generosità degli altri; è importante ricordarcelo e che impariamo a condividere anche questo.

 

In conclusione, le chiediamo un regalo: il suo ricordo più bello di quando era un giovane prete…

La prima messa, senza dubbio, con la gioia che ha portato in tanti. Anzi, a dire il vero le due prime messe. La prima fu a Santa Maria Maggiore, per i miei famigliari. Eravamo immersi nella più grande bellezza di Roma e della sua storia. Ma anche la seconda messa si celebrò in un’altra “basilica”: lo scantinato, nella periferia romana di Primavalle, dove andavo a fare la scuola ai bambini e dove tutte le domeniche si ritrovava la comunità di adulti e di anziani del quartiere. Vedere la loro gioia, la loro soddisfazione, il loro orgoglio di sentirsi amati e parte della Chiesa è qualcosa che mi ricorderò per sempre perché ancora oggi mi fa capire come il prete può aiutare tanti a scoprire la presenza del Signore e a diventare essi stessi presenza di Dio, nei posti più impensabili. Anche in uno scantinato, in uno dei quartieri che allora era uno dei più violenti di Roma.

 

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