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Era l’anno 614 e la basilica di Betlemme, eretta attorno al 325 dall’imperatrice Elena, madre di Costantino, e restaurata un paio di secoli dopo da Giustiniano, si trovava sotto assedio da parte del re persiano Cosroe che aveva raso al suolo tutti gli edifici cristiani di Terra Santa.

Il sovrano stava per ordinare l’assalto quando notò che il frontone presentava raffigurati alcuni personaggi vestiti come lui e la sua gente. Erano i Magi che i bizantini avevano dipinto in abiti da cerimonia persiani. Quella chiesa, che racchiude la grotta della nascita di Cristo, fu così salvata. È ancor oggi possibile visitarla, penetrandovi per una minuscola porta detta simbolicamente “dell'umiltà”, ma forse concepita in tal modo per impedire ad eventuali guerrieri saraceni di farvi irruzione a cavallo. Il racconto di Matteo che riguarda i Magi è piuttosto sobrio, sebbene non privo di colpi di scena e risulta tutt’altro che fiabesco, anche se la tradizione popolare successiva si è lasciata sedurre dalle sue componenti narrative capaci di ispirare innumerevoli racconti e le Adorazioni di artisti celebri o ignoti. Nel 1985 durante una campagna di scavi in Egitto, nel Deserto delle Celle, ad ovest del delta del Nilo, venne alla luce la più antica testimonianza dipinta dei nomi dei Magi, ignoti alla Scrittura. Sull’intonaco chiaro del muro interno di una cella furono infatti rinvenute, scritte in rosso, le parole: “Gaspare, Belchior, Bathesalsa”. Probabilmente, qualche antico monaco del VII-VIII sec., non avendo altro su cui scrivere, si era annotato sul muro quei nomi così singolari, magari uditi durante una liturgia in cui dovevano contemplarsi anche letture extracanoniche. In ogni caso, si trattava di una delle molteplici varianti della vicenda che derivavano dai cosiddetti apocrifi, testi nati dalla devozione del primo cristianesimo in cui, come ricorda il card. Ravasi, pagliuzze d’oro di fede e verità storica si immergono in un magma di fantasie folcloristiche. Ad esempio, in un frammento del perduto Vangelo degli Ebrei risalente all’inizio del II sec., i Magi appaiono come “indovini dal colorito bruno e dai calzoni alle gambe” e sono un vero e proprio stuolo, anche se guidato da tre capi: “Caspare, Melco e Fadizarda”. Tra il VI e l’VIII sec. invece un altro apocrifo, lo Pseudo-Matteo, mostrerà i Magi portare ciascuno una preziosissima moneta al Bambino ed aggiungervi anche un omaggio personale: Gaspare avrebbe offerto la mirra, Melchiorre l’incenso, Baldassarre l’oro. Si costituiva dunque la tradizione popolaresca dei tre sapienti, con dei nomi ben precisi e, a motivo dei doni e dello stupendo salmo 72 (“I re di Tarsis e delle isole porteranno tributi, i re di Saba e di Seba offriranno doni, a lui tutti i re si prostreranno”), considerati di dignità regale. In queste figure inoltre si tenterà di riassumere ogni gruppo umano e così l’uno verrà identificato come un bianco, l’altro come un orientale ed il terzo come un moro. Oppure, si proverà ad impersonare in esse le tre stagioni della vita, immaginando il primo come un giovane, il secondo come un uomo di mezza età e l’ultimo come un vegliardo. Infine le loro ipotetiche ma veneratissime reliquie approderanno, attraverso complesse vicende storiche, dapprima nella basilica di Sant’Eustorgio a Milano e poi, grazie all’imperatore Federico Barbarossa, nel Duomo di Colonia, dove attireranno pellegrini da tutta l’Europa Continentale. Le suggestive pagine degli apocrifi e le tradizioni ad esse congiunte generarono a volte scene davvero singolari. Il Protovangelo di Giacomo del III sec. iniziò a fissare l’attenzione sulla stella. “Abbiamo visto - confessano i Magi - una cometa grandissima che splendeva tra tutte le altre e le oscurava, tanto che esse non apparivano più. La cometa si è poi arrestata proprio in cima alla grotta”. Dell’astro trattò anche L'infanzia del Salvatore, un testo del VI sec. scoperto nel 1927: “Ecco un’enorme stella che splendeva sulla grotta dalla sera al mattino. Una stella così grande non era mai stata vista dall’inizio del mondo”. Nel prosieguo del racconto, l’autore ricorda però, in modo più raffinato, che la cometa era in realtà “l’ineffabile parola di Dio”. Pittoresco rimane poi il monologo di Giuseppe che spia da lontano, quasi con apprensione, i Magi: “Mi pare siano àuguri: non stanno fermi un momento, osservano e discutono tra loro. Sono forestieri: l’abito è diverso dal nostro, la veste è amplissima e scura, hanno berretti frigi e alle gambe portano sarabare orientali”. Ancor più vivace è il Vangelo arabo dell'infanzia del V-VI sec. che ritiene i Magi discepoli di Zarathustra, iniziatore del mazdeismo iranico, e li fa protagonisti di un apologo sulle fasce di Gesù: “Maria prese una delle fasce del Bambino e la diede loro in ricordo. Essi si sentirono onoratissimi di riceverla dalle sue mani. Rientrati nel loro paese, durante una festa in onore del fuoco sacro, posero quella fascia nel grande falò liturgico. Ma, spento il fuoco, essa riapparve intatta tra le ceneri. Presero allora a baciarla e a imporsela sulla testa e sugli occhi”. A veicolare la devozione verso i Magi fu soprattutto l’iconografia. Nelle catacombe romane essi appaiono già nel II sec., ben prima dei più modesti pastori. Sarà tuttavia nel Medioevo che le loro figure diventeranno davvero note e familiari ad ogni fedele. Grazie agli scritti di Jacopo da Varazze e di Giovanni di Hildesheim, da cui tanta biblia pauperum trarrà ispirazione, i Magi finiranno per essere venerati non solo come patroni di famiglie reali o nobili ma anche di quanti erano chiamati ad affrontare un viaggio di terra, come viandanti e mercanti. L’itinerario alla volta di Betlemme, inteso in senso metaforico, favorì poi il loro patrocinio su coloro che si apprestavano a vivere il “viaggio” più misterioso dell’esistenza umana, i moribondi.        Ma da dove venivano i santi re? A tale domanda Matteo risponde con un enigmatico “da Oriente”. In verità, la parola greca Màgoi è un termine molto ampio, col quale si indicavano astrologi, incantatori, aruspici, figure quindi di svariata attendibilità. La provenienza “da Oriente” non è poi circoscritta perché abbraccia un orizzonte culturale molto variegato. Nell’Antico Testamento, il Libro di Daniele parla spesso di magi babilonesi ed in effetti Babilonia aveva il primato, nel Vicino Oriente, degli studi astronomici. Là, anche ai tempi di Cristo, era attiva una nutrita colonia giudaica che forse aveva trasmesso le sue attese messianiche ai sapienti caldei di Mesopotamia. In altri passi veterotestamentari però i figli d’Oriente sono molto spesso gli Arabi del deserto o i Nabatei, le cui carovane commerciavano in oro ed incenso e le cui relazioni con Israele risalivano all’epoca di Salomone. Ben quattro tribù arabo-siriane derivavano poi il loro nome da stelle, dimostrando così un vivo interesse per i corpi celesti. Saranno state tali considerazioni a spingere nel II sec. il filosofo cristiano Giustino ad affermare senza esitazione che “andarono da Erode dei Magi provenienti dall’Arabia”. Ciononostante un ricercatore americano, Martin McNamara, negli anni novanta, ha reso molto più vicini questi sapienti considerandoli come membri degli Esseni, la comunità giudaica nota per il monastero di Qumran, posto sulle rive del Mar Morto. Essi infatti erano esperti di oroscopi messianici e, nei loro scritti, i doni dei Magi sono citati assieme al simbolo della stella del Messia. Se la precisa provenienza dei Magi resta un enigma irrisolto, altre riflessioni si possono fare sul loro destino. Stando a diverse fonti, i re fecero sì ritorno al loro paese, come riferisce Matteo, ma in seguito sarebbero stati raggiunti dalla predicazione evangelica dell’apostolo Tommaso. Ricevuto il battesimo, i saggi monarchi ormai ultracentenari sarebbero addirittura finiti martiri per testimoniare la loro fede in quel Dio Bambino che avevano adorato.

 

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