“La fragilità appartiene a tutti”. Sono queste le parole poste al cuore del Messaggio inviato da Papa Francesco in occasione della Giornata Internazionale delle persone con disabilità 2020 e che si celebra il 3 dicembre di ogni anno.
L’occasione per riflettere su tale tema è data anche dalle note condizioni di emergenza pandemica in cui tutti si trovano a vivere da alcuni mesi. Se è vero che le conseguenze legate all’epidemia virale riguardano tutti indistintamente, è altrettanto vero che esse sono più nefaste proprio per le persone con disabilità.
Alla radice dell’attuale, seppur non totale, esclusione delle persone con disabilità dalla vita sociale, sembra, afferma il pontefice, esserci un’amnesia globale che ha condotto l’uomo a dimenticare ciò che costituisce la sua persona ossia la fragilità.
La “mentalità narcisistica e utilitaristica” ha fatto cadere nell’oblio una verità fondamentale e che Francesco oggi ribadisce con forza: “La fragilità appartiene a tutti”. Duole infatti constatare come, proprio a causa di questo dato di realtà, le persone con disabilità siano ancora considerate come una categoria la cui unica funzione sia quella di ricevere dei benefici che provengano dall’alto. In realtà occorrerebbe un’inversione di paradigma culturale sia nella società civile ma anche in quella ecclesiale. Si tratterebbe, cioè, di considerare la fragilità delle persone con disabilità quale motore propulsivo della società e della Chiesa, quale luogo da cui si sprigiona una singolare creatività di cui beneficerebbero la società civile e la realtà ecclesiale. In queste due ultime realtà, infatti, afferma il pontefice argentino, ci sono “persone normodotate che sono insoddisfatte, o a volte disperate”, al contrario di tante altre persone con disabilità che, invece, “pur con fatica, hanno trovato la strada di una vita buona e ricca di significato”.
Si fa sempre più urgente allora e non più rinviabile l’esigenza di coinvolgere attivamente le persone con disabilità nelle centrali dinamiche della vita sociale ed ecclesiale. Tanto è stato sicuramente fatto ma occorre considerare che davanti vi è ancora un lungo tratto di strada inesplorato, non ancora percorso.
Si tratta di raggiungere una meta: “la meta è che arriviamo a parlare non più di loro ma solo di noi” afferma ancora il Papa. Occorre far emergere “uno stile di accoglienza” nelle comunità parrocchiali e cristiane che si concretizzi nel rendere le persone con disabilità soggetti attivi nell’ambito liturgico-pastorale.
Illuminante e, quasi, spiazzante infatti è il forte invito che il Santo Padre rivolge a tutti nel suo Messaggio nel rendere sempre più edotte le persone con disabilità in ambito teologico e dottrinale, diventando catechisti e trasmettendo la fede agli altri.
Se occorre porre in essere tutti gli strumenti idonei affinché questo si compia sul piano dei contenuti della fede, nondimeno occorrerà farlo sempre più anche nell’ambito della partecipazione alla vita liturgica della comunità parrocchiale e diocesana: occorrerà allora, in tal senso, abbattere, laddove possibile, le barriere architettoniche affinché anche il ministero della proclamazione della Parola possa riguardare le persone con disabilità le quali sono le prime discepole del Signore che parla al Suo popolo.
Un altro ambito fondamentale per ciò che concerne la vita delle persone con disabilità all’interno delle realtà ecclesiali riguarda la partecipazione alla catechesi per l’accesso ai sacramenti: prezioso e sempre più evidente e crescente è l’impegno di singole diocesi affinché sempre più persone con disabilità accedano alla catechesi, propedeutica alla celebrazione dei sacramenti. Occorrerà però sensibilizzare maggiormente e sempre più in tal senso ciascuna comunità parrocchiale e ciascuna Chiesa locale.
In conclusione, il senso del Messaggio del Pontefice non è da individuarsi nel semplice invito a rivolgere un sensibile gesto di servizio nei confronti della fragilità delle persone con disabilità, ma piuttosto si tratta di farla propria, condividerla proprio perché essa riguarda tutti, nessuno escluso. Solo così si realizzerebbe la vera eversività e universalità dell’annuncio evangelico. Solo servendo e custodendo la bellezza della fragilità altrui, si curerà la propria e la Chiesa testimonierà al mondo la bellezza ferita del volto misericordioso di Cristo.